domenica 30 dicembre 2007

DONNE, SERVE UNA CURA SHOCK PER LA PARITA' SUL LAVORO





Questo è l'ultimo post dell'anno...vi lascio con un tema ponderoso e mi ritiro in eremitaggio per qualche giorno. Tornerò dopo la Befana ;-D










Si discute su come incentivare il lavoro delle donne, visto che la loro partecipazione al mercato del lavoro è in Italia a livelli bassissimi (come ho scritto sul Messaggero del 27/12: da noi lavora il 46% delle donne, contro la media europea del 57%). Una delle proposte sul tavolo è quella degli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino che propongono di abbassare le tasse sui redditi femminili. Questo spingerebe le donne a cercare lavoro fuori di casa e, si presume, gli imprenditori ad assumerle. Per di più, il provvedimento sarebbe a costo zero per le casse dello Stato, perché si calcola che la riduzione della tassazione in percentuale sul reddito, sarebe compensata dalla maggiore produzione di reddito da parte delle donne stesse. In caso di necessità, si potrebero alzare lievemente le tasse sul lavoro degli uomini, ma non dovrebbe essercene bisogno.
Una delle voci più in sintonia con il tema, ma in parziale disaccordo sulla proposta, è il ministro Emma Bonino, che oltre a occuparsi di politiche comunitarie e di moltri altri temi, si occupa attivamente di donne. "Qualunque donna che abbia una storia di fatica professionale - dice la Bonino - si accorge subito che lo sgravio fiscale propone, forse in modo inconsapevole, un assioma molto maschile e “italiano” e cioè che il lavoro di cura domestico sia sempre e comunque un “affare privato” delle donne. C’è bisogno di una badante o una baby sitter? Aumentiamo il potere d’acquisto delle donne, così se la pagano. Questa proposta potrebbe suggerire che il lavoro di cura sia appannaggio esclusivo delle donne e che debbano essere loro, se necessario, a pagarsi una sostituta. Le buone intenzioni a volte non bastano per evitare di ricadere in vecchi schemi culturali".

Tornano alla carica Alesina, Ichino e Loukas Karabarbounis, con un articolo pubblicato su Vox Europe , portale europeo di economia. Loro difendono la loro proposta di agire attraverso la "leva fiscale" in quanto la considerano la più semplice, efficiente e "neutrale". Fanno l'esempio delle importazioni: per regolarle, in caso di necessità, meglio agire sulle tariffe che sulle quote (cioè sulle quantità). Lo studio si pone esplicitamente tre domande cruciali: 1) perché il lavoro delle donne dipende così tanto dal livello del salario? (Quello degli uomini no: loro vanno a lavorare comunque); 2) come cambierebbe questo comportamento con tasse diverse basate sul sesso? 3) che effetti ci sarebbero all'inerno dell'organizzazione familiare?





Il fulcro di tutto il ragionamento è che le differenze di comportamento rispetto al lavoro esterno nascono all'interno dell'organizzazione familiare e nella divisione dei compiti in casa. Gli uomini vanno a lavorare comunque, indipendentemente dal livello di reddito, perché trovano socialmente inaccettabile rimanere a casa. Le donne, invece, sono soggette a forti pressioni all'interno della famiglia, affinché non vadano a lavorare, e lo faranno solo se il guadagno è "convincente". Solo, cioè, se il salario supera le spese necessarie per trovare un aiuto in casa e/o una baby sitter. La divisone dei compiti di cura, così, risulta sbilanciata, con il carico principale sulle spalle delle donne.

"Se la società valuta il lavoro delle donne tanto quanto quello degli uomini, allora la divisione dei compiti all'interno della famiglia deve essere più bilanciata, più paritaria", scrivono i tre studiosi. Ed ecco che la riduzione delle tasse sui loro redditi dà alle donne un "potere di contrattazione" in più. Le rende più forti: poiché il mio reddito è meno tassato, mi conviene andare a lavorare, quindi, marito caro, dividiamoci equamente le pulizie, le faccende e la cura dei bambini. Questa sarebbe la conseguenza desiderata della riduzione delle tasse per incentivare il lavoro femminile.

Se ne potrebbe concludere che, naturalmente, asili nido, servizi sociali e congedi parentali per gli uomini nascerebbero proprio grazie a questo spostamento dei rapporti di forza, ottenuto attraverso il prezzo: sul mercato ci sarebe una maggiore domanda di asili nido (tanto per fare un esempio) e gli asili nido sorgerebbero come funghi.




Ma, in pratica, nulla impedisce che le politiche affermative, chieste dalla Bonino, e cioè l'intervento dello Stato per offrire questi servizi, si affianchino a un intervento fiscale. Un "doppio attacco" al problema potrebbe aiutare a sgretolare le resistenze e affrontarlo in modo più veloce ed efficiente.

sabato 29 dicembre 2007

STAGISTA O STEGGISTA?

Un po' di ironia in questi giorni non guasta !

martedì 25 dicembre 2007

INSEGNANTI, TROPPO MODESTI E MAL PAGATI

LINK AGGIORNATO

Mi pare che il tema della scuola, giustamente, appassioni. E siccome il punto vero da cui partire per un rovesciamento di alcuni vizi italiani credo che sia la condizione di insegnante, prendiamo in considerazione alcuni dati, tratti dall'ultimo rapporto Ocse sull'educazione.

Va detto che mai come in questo caso i dati possono essere interpretati in vari modi, quindi io ne tenterò una lettura, che naturalmente è soggetta a correzioni.

Intanto i livelli di spesa "per studente" in Italia sono più alti della media Ocse: in totale 99.778 dollari per tutta l'istruzione primaria e secondaria. Siamo all'ottavo posto dopo paesi tradizionalmente munifici su questo tema (Austria, Danimarca, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Svizzera e Stati Uniti).

Nell'istruzione superiore invece investiamo poco, con una spesa dello 0,9% del Pil. Siamo l'unico paese Ocse che spende per questo meno dell'1% del Pil. E non è certo un buon segno, visto che ormai siamo nel gruppo dei paesi che dovrebbe dare per scontata l'istruzione primaria e invece puntare con decisione su quella superiore e avanzata.

Tasse universitarie: l'Italia fa parte del gruppo con la tasse d'ingresso più basse, ma pochi godono di borse di studio e/o prestiti. Potrebbe essere un pregio, purtroppo l'alto tasso di abbandoni e la lunghezza dei percorsi universitari, spesso farebbero pensare che tasse più alte spingerebbero gli studenti a sbrigarsi di più. A proprio vantaggio.

Ore annuali di lezione: da noi sono tante, più di 8.000 ore tra i 7 e i 14 anni. La media Ocse è di 6.898 ore. Qui ci si potrebbe dichiarare soddisfatti...eppure io ho la sensazione che tenere i ragazzini inchiodati sui banchi per tante ore (anche otto in una prima media), facendoli spesso annoiare, con scarse motivazioni e entusiasmo, dia risultati controproducenti. Ma ovviamente, è difficile generalizzare. Quello che è certo è che le teste dei ragazzi non sono damigiane, nei quali più si mette e più resta, ma sono organismi che vanno stimolati nel modo più appropriato. E su questo i numeri non dicono nulla.

Stipendi degli insegnanti: da noi sono più bassi della media Ocse. Si calcola che un docente di scuola media con 15 anni di servizio guadagni 8.500 dollari l'anno in meno della media Ocse.

Un insegnante italiano però fa in media meno ore di lezione (735 nella primaria e 601 nella secondaria, contro le 803 e 707 della media Ocse), ha meno alunni (18,3 alunni per classe nella primaria e 20,9 nella secondaria, contro i 21,5 e 24,1 della media Ocse). Questo vuol dire che ci sono più docenti per numero di alunni.

Ecco perché dico che forse in Italia ci sono troppi insegnanti, mal pagati e da cui ci si aspetta a volte troppo poco. Loro stessi sono modesti o fanno troppo i modesti. A questo rispondono i sindacati che è difficile fare paragoni, perché da noi ci sono gli insegnanti di sostegno, e spesso i docenti fanno anche da bibliotecari o assolvono ad altre funzioni di supporto, che all'estero sono svolte da "non docenti". E' anche vero che questa è per l'appunto la descrizione di una realtà sciatta, in cui tutti i gatti sono grigi e non si distingue tra professionalità, competenze e stipendi.

Gli insegnanti non dovrebbero più considerarsi ed essere considerati come povera e derelitta categoria di lavoratori, per fortuna rappresentati da forti sindacati; dovrebbero invece diventare élite del lavoro intellettuale il cui obiettivo principale, anzi unico, sia formare intelligenze e cittadini nuovi. E quindi reclutare i migliori laureati ed essere pagati di conseguenza. Sogno?

Vorrei aggiungere un'ultima idea contraria a quella che è la vulgata , e che secondo me ha danneggiato enormemente gli insegnanti e la scuola nel suo insieme: la gente deve smettere di pensare e credere, perché non deve più essere così, che fare l'insegnante sia per natura un lavoro con cui è possibile "conciliare" la famiglia! Questa è la peggiore iattura della nostra scuola! Fare l'insegnante deve essere un lavoro duro, esattamente come fare il manager... E anche il manager deve poter conciliare il lavoro con la famiglia!



domenica 23 dicembre 2007

IL PROFESSORE DEI NOSTRI SOGNI

Una scuola divertente e stimolante? E’ quello che ci servirebbe, con professori preparati, motivati e interessanti. Non occorrerebbe quasi nient’altro: né regole speciali anti bullismo, né una qualche speciale cultura del merito, della fatica, della sofferenza (di cui ormai va di moda parlare). Tutto ciò seguirebbe, come naturale e civile conseguenza. Purtroppo, finché continueremo nelle scuole e nelle università ad avere troppi professori, non motivati, mal pagati e non in concorrenza l’uno con l’altro, tutto ciò non avverrà, qualunque ”invenzione” sulla scuola e l’istruzione il governo tiri fuori dal cilindro. In questo video e negli altri che potete vedere su you tube, il cui protagonista è Walter Lewin, professore di fisica ultrasettantenne del Mit di Boston, c’è tutto ciò cui ogni scuola degna di questo nome e ogni professore con si dovrebbe ispirare.

sabato 22 dicembre 2007

GIOVANI E DONNE VI GIUDICANO




Qui potete ascoltare la puntata del 14 dicembre della trasmissione "In panchina vacci tu" su Radio Radicale. Al microfono, condotto da Valeria Manieri, si alternano Michel Martone, docente di diritto del lavoro e autore di "Governo dell'economia e azione sindacale", Francesco Delzio, direttore dei giovani della Confindustria e autore di "Generazione Tuareg", Federico Mello, fondatore di generazioneblog e di "L'Italia spiegata a mio nonno" , Giuliano Gennaio di Coalizione Generazionale, e la sottoscritta.
Non so quando, ma prima o poi, sentirete su Radio Radicale una seconda puntata, nella quale potrete ascoltare dalla viva voce dei protagonisti l'intenzione di mettere sotto esame scuola, università, comunicazione, giornali e tv, politica.
Il punto di vista che ci riunisce è quello di chi vuole allargare il cerchio delle idee e del potere anche alle nuove generazioni e alle donne, generalmente tenute ai margini (o che si fanno tenere ai margini).


Spero che avrete apprezzato la vignetta natalizia di Arnald

giovedì 20 dicembre 2007

DISOCCUPAZIONE AL 5,6%: L'ITALIA COME IL NORD EUROPA


Stavolta abbiamo un dato positivo, molto positivo, talmente positivo che qualcuno forse non ci può credere. L'ultima rilevazione Istat ci dice che la disoccupazione in Italia è al 5,6%. Una percentuale che non si ricorda a memoria d'uomo. Per trovare percentuali analoghe bisogna risalire ai favolosi anni Sessanta, forse. Forse, perché l'Istat ci informa, correttamente, che questo è il miglior dato dal 1992. Na la limitazione all'anno 1992 è solo dovuta al fatto che è da quella data che l'Istat ha serie storiche confrontabili per legge, dopo che l'Istituto stesso fu riorganizzato. Però perfino io mi ricordo che negli anni '80 la disoccupazione era intorno all'11%, se non oltre.

Siamo quindi ormai vicini ai dati di paese "moderni", come l'Irlanda, la Gran Bretagna, la Danimarca...pazzesco, se si pensa alle lamentazioni che si alzano da tutte le parti: la gente ha il gusto di lamentarsi? Non credo. Credo però che non abbiamo l'esatta percezione di ciò che succede.

Per chi fosse scettico, l'Istat ci informa anche che il numero degli occupati è salito di 416 mila unità (metà dei quali sono immigrati). Quindi siamo a 23 milioni e 416mila occupati. E il tasso di occupazione sul totale della popolazione è salito un po': è al 59,1%. Ancora lontano dagli obiettivi della Ue, perché la situazione delle donne nel lavoro è scoraggiante: il dato dell'occupazione femminile è così basso rispetto ad altri paesi che ovviamente fa crollare la media. Se poi si vanno a guardare i dati scorporati si scopre che, come al solito, il Meridione dà risultati molto al di sotto della media. Però passi avanti ci sono, sarebbe folle non vedere.

Sull'ultimo numero di Panorama, intanto, c'è un servizio sui precari contenti....quelli che sono ben felici di usufruire delle possibilità di un mercato più flessibile rispetto al passato, quelli di cui parlo anche nel mio libro. Insoma, in Italia non tutto fa così schifo, anche se la sensazione di insoddisfazione generale va capita bene: e forse è ora di sfruttare queste "occasioni" che abbiamo, e non solo liquidarle come inutili. Credo per esempio che sempre più spesso incontreremo dei lavoratori post-moderni, flessibili o come li vogliamo chiamare, che guarderanno dall'alto in basso i loro colleghi con un misero posto fisso. E che non capiranno.

mercoledì 19 dicembre 2007

FUOCO INCROCIATO DEI BAMBOCCIONI SUL PROTOCOLLO



Il famigerato protocollo sul welfare non è stato tenero con i giovani. In parte ha ignorato i loro bisogni, in parte li ha presi per il naso, facendo ricadere su di loro la famigerata abolizione dello "scalone", che poi era il motivo principale per cui si è fatto il protocollo. (Chi mi segue sa quanto io abbia preso a cuore la vicenda, inutilmente). Queste poche righe, secondo me, basterebbero. Però c'è chi ci si è dedicato più lungamente e approfonditamente. In particolare vorrei segnalare le analisi di due giovani molto attrezzati: uno è Federico Mello, blogger e autore di "L'Italia spiegata a mio nonno", che ha scritto "Il protocollo sul welfare visto dai Bamboccioni (incazzati)". L'altro è Alessio Maniscalco, anche lui blogger, collaboratore di giornali e "cultore" di diritto del lavoro, che ha scritto sul Bollettino Adapt "Un contrasto generazionale? Riflessioni sul Protocollo Welfare del 23 luglio scorso".Sono due punti di vista politicamente opposti: Mello si definisce Verde, comunque dichiaratamente di sinistra e a volte strizza l'occhio ad alcune frange di antipolitica e di sinistra radicale (lui nega). Maniscalco invece si capisce che ha qualche simpatia per il centro destra, tanto è vero che nel suo scritto loda ampiamente il "Patto per l'Italia" stipulato dal governo Berlusconi con una parte del sindacato, al quale riconosce uno "spirito innovativo", a fronte dell'"inerzia riformatrice" del Protocollo Prodi. Potrebbero sembrare punti di vista inconciliabili.Eppure non è così. Anzi, le conclusioni sono in gran parte simili nella sostanza.Nonostante le lodi di Maniscalco, il Patto per l'Italia è rimasto lettera morta. Così come è rimasta in larga misura inattuata la legge Biagi nelle parti in cui prevede nuovi ammortizzatori sociali e tutele, nuovo impulso all'apprendistato, alla Borsa Lavoro nazionale. Il passato viene rivisitato anche da Mello, il quale ( anche lui) cita Biagi, che nel libro Bianco sottolineava: "La struttura della spesa sociale italiana denota un'accentuata caratterizzazione pensionistica ed una bassa incidenza tanto dei trattamenti di disoccupazione quanto di quelli assistenziali a favore di soggetti in età lavorativa (...)". Nessuno in realtà ha fatto niente per cambiare questo stato di cose.
Anche stavolta, quindi, si sono privilegiate le pensioni. Sette miliardi e mezzo per evitare lo scalone, finanziati paradossalmente gravando sulle spalle di più giovani, con maggiori contributi e con altre amenità a lungo termine. patetica la rimodulazione dei contratti a termine. Diversamente da Mello non penso che si dovesse "fare di più", sarebbe stato più dignitoso non fare niente. Anzi, in questo seguo il ragionamento di Maniscalco sulla eccessiva rigidità del nostro mercato del lavoro, che scarica tutta la flessibilità sulle spalle dei giovani. In paesi diversissimi come Gran Bretagna e Danimarca questo non succede e la flessibilità non viene vissuta in maniera drammatica.Alla fin fine i due testi, partendo da posizioni politiche lontane, convergono: Maniscalco cita l'egoismo generazionale" di cui parla Michel Martone: ..."Viviamo in un Welfare State ammalato di egoismo generazionale - dice Martone - Nel quale i privilegi dei padri vengono pagati con il futuro dei figli, sul quale grava il terzo debito pubblico del mondo...."E Mello: "Evidentemente scrivendo questoprotocollo sul welfare, chi sta al potere ha scelto a cuor leggero la strada dello scontro generazionale, del bullismo dei nonni sui nipoti, in luogo di politiche lungimiranti..."Insomma, visto che i trentenni convergono nonostante alcuni persistenti pregiudizi, forse sarebbe bene che si parlassero e superassero gli ideologismi che già hanno fatto parecchio male a questo Paese. Il che non vuole dire che si debba buttare via una sana partigianeria politica, sale di ogni dibattito pubblico. Ma che sia a posteriori, non a priori!

PS: Mello se la prende ripetutamente con il ministro Padoa-Schioppa (affettuosamente chiamato Tps) per la frase sui Bamboccioni, per la quale sarà senz'altro ricordato sui libri di scuola. Ebbene, Federico non me ne voglia, ma secondo me prendersela tanto con lui per questo è sbagliato: la mia impressione è che Tps volesse, in fondo, fare qualcosa di positivo per i giovani (spesso, e non da ora soltanto, un po' addormentati: concedimelo). Ma gli è uscita male, quindi è bollato. Ma attenti, perché anche voi sarete per sempre la generazione dei bamboccioni, qualunque miracolo voi facciate. Potere stregonesco e pasticcione della comunicazione nell'era delle veline e dei blog!.

lunedì 17 dicembre 2007

FLESSIBILI E PRECARI


Qual è la differenza tra flessibilità e precarietà? Questa è stata una domanda venuta dai ragazzi che hanno partecipato al dibattito di oggi in via Salaria alla facoltà di Sociologia e Scienze della Comunicazione. La domanda è arrivata alla fine, quando ormai si andava di fretta. E' una bella domanda, ma anche un po' maliziosa: come se si volesse incanalare la discussione su binari lessicali, o comunque di carattere sistematico- generale...quasi che il problema siano le definizioni, e non la realtà.







La realtà (e qui rispondo anche alla domanda) è che la flessibilità fa e farà sempre di più parte della nostra vita. Perfino in Italia, paese che, lo si ammetta o no, è piuttosto restio a lanciarsi nelle novità di carattere sociale profondo. La flessibilità è un fatto. E non è legato solo al modo di prduzione post fordista, ma fa parte di tutto il nostro mondo. Lo spiega benissimo Massimo Paci, nel suo libro "Nuovi lavori, nuovo welfare" quando parla del processo di individualizzazione, che porta con sè libertà e autonomia. Un processo che si può rintracciare fin dalla riforma protestante o forse fin dal Rinascimento oppure, aggiungerei, fin dalle radici del cristianesimo (almeno come lo abbiamo interpretato in Europa). Se comunque rimaniamo all'ambito economico, la flessibilità produttiva ha investito da tempo tutto l'Occidente. Uno dei risvolti positivi della flessibilità, per fare un esempio, è che consente al lavoratore di usufruire di tempi di lavoro che gli permettono di svolgere altre attività, come per esempio seguire i figli. Anche il part-time è una forma di flessibilità. Per i consumatori la flessibilità è la possibilità di trovare più commessi nei grandi magazzini nei giorni di acquisti, le automobili del colore che vogliono in tempi relativamente rapidi, gli uffici aperti in orari in passato impossibili. La flessibilità dei lavoratori permette a molte donne lavoratrici di fare la spesa la domenica. Sono solo esempi.

E la precarietà? La precarietà è un concetto che contiene in sé già un giudizio negativo. Il senso di incertezza, di insicurezza. In che modo si lega alla flessibilità? Intanto si lega psicologicamente, per chi non è abituato alla flessibilità. In particolare, l'Italia non è preparata perché ha fin troppo enfatizzato nel passato le tutele per certi tipi di lavoro (per esempio pubblico) e perché manca quasi completamente di tutele adatte alla nuova organizzazione del lavoro. In concreto, in un mercato del lavoro rigido, oggi la gran parte della flessibilità pesa sulle spalle dei più giovani, che però non hanno, a differenza dei loro coetani danesi o norvegesi, sussidi di disccupazione, salari minimi, prospettive di pensione minima, accesso a mutui e prestiti semplici, e così via. Ed ecco fatta la frittata della precarietà. Che non si cancella certo abolendo con un tratto di penna la flessibilità, ma solo cercando di introdurre tutte quelle altre cose che mancano.

Aggiungo un punto-chiave, di cui pure si è parlato oggi durante il dibattito: la formazione, il rapporto tra scuole, università e mondo del lavoro. E' un rapporto ancora labile. Sono ancora due mondi lontani. Io vorrei sapere quanti insegnanti di scuola si domandano cosa fare per i loro alunni e futuri lavoratori. Quanti di loro si pongono questo problema e lavorano su questo tema? Vorrei conoscerli. Però è anche vero che molto si è mosso. Enzo Mattina ha raccontato di iniziative tra la sua agenzia del lavoro Quanta e alcune scuole tecniche e università. Il rappresentante del ministero del Lavoro Ugo Menziani ha raccontato di accordi tra il ministero e l'università per far funzionare la Borsa Lavoro. La stessa iniziativa del professor Marcello Fedele (nella foto qui accanto) dimostra che anche altri si pongono sempre di più questo problema.

E io credo che, al di là di molte chiacchiere, questo sia un punto cruciale su cui devono puntare i più giovani. E se la scuola e l'università non li informa, cercassero di informarsi loro, in tutti i modi, perché questo è fondamentale per la loro vita.

Quanto a me, come ho detto stasera, se attraverso le mie storie di "precari contenti" riuscissi a dare qualche idea, qualche spunto a uno solo di questi ragazzi con l'ansia del futuro, ne sarei felice. Niente, in fondo, di più.

domenica 16 dicembre 2007

CI VEDIAMO IN VIA SALARIA 113







Stavolta il dibattito è meno giovanilistico, ma proprio delle prospettive dei giovani si parla. Appuntamento in via Salaria 113, alle 14,30. Ci sarà un bel gruppo di esperti di giovani e lavoro, con una conoscenza diretta del mercato, come Enzo Mattina (per l'agenzia del lavoro Quanta) e il rappresentante del Ministero del Lavoro, ed esperti universitari come tutti quelli che vedete nella locandina . In particolare Massimo Paci ha scritto molti saggi sui nuovi lavori, sul lavoro che cambia e anche su come dovrebbe cambiare il welfare nel nuovo mercato, quindi sono molto curiosa di sentire cosa dirà. Sul tavolo ci sarà "Precari e contenti" e io sarò ben felice di rispondere ai relatori e agli studenti.

venerdì 14 dicembre 2007

ITALIANI DEPRESSI? IN PANCHINA VACCI TU







L'Italia è un paese triste e depresso, scrive Ian Fisher sul New York Times. E' vero. Inutile la difesa d'ufficio di Napolitano. Basta guardarsi intorno per la strada, si vedono certi musi lunghi... per non parlare delle cifre: crescita quasi zero, crescita della produttività zero, giovani al potere sotto zero, donne al potere idem, investimenti su scuola, ricerca e sviluppo, pochissimi. I ragazzi cominciano a parlare della loro paura del precariato prima ancora di aver finito la scuola, e invece di sognare di cambiare il mondo, sognano le vacanze organizzate e la pensione (su questo hanno ragione: se la sognano, la pensione, ma anche un po' per colpa loro). In Precari e contenti" ho scritto: "Ascoltandoli si ricava la convinzione che la depressione sia una malattia socialmente trasmissibile, che viviamo in un paese dove il bicchiere viene visto sempre mezzo vuoto e dove, di fronte alle difficoltà, invece di tirare fuori l'orgoglio i giovani depongono le armi. Oppure sono preda di una rabbia incontrollabile, cieca, impotente, dalla quale non riesce a emergere nessuna forza propositiva, solo nichilismo" (Come chiamate il vaffa..day di Grillo?!)
Partendo da questo spunto siamo tornati a parlare di giovani, lavoro, donne e politica alla trasmissione "In panchina vacci tu" di Radio Radicale, con Francesco Delzio, Giuliano Gennaio, Michel Martone, Federico Mello. Conduceva Valeria Manieri. La trasmissione dura un'ora ma il gruppo è vivace e ben assortito, io credo che sia interessante.
A parte ciò, tornando sulla depressione, è di oggi la notizia di un ricercatore che ha fatto importanti ricerche nella cura contro i tumori e che però ha deciso di lasciare l'Italia per disperazione: si chiama Antonio Porro, 28 anni e se ne va in Svizzera. E' di oggi anche il richiamo della Banca centrale europea: con la Finanziaria 2008 l'Italia ha mostrato scarsa ambizione, il risanamento dei conti non procede. Già. E quel debito pubblico, tra le altre cose, pesa come un macigno sulle spalle degli italiani, ma soprattutto sulle spalle dei giovani e delle donne: perché per quel macigno non si possono fare più asili nido, sussidi alla disoccupazione, assistenza agli anziani, tutto ciò che libererebbe energie vitali per il nostro Paese. Perché è chiaro: non è che siamo tutti depressi! Se ascoltate la trasmissione a Radio Radicale vi rendete conto che ci siamo divertiti un sacco a incontrarci e a discutere (La Compagnia si è data appuntamento di nuovo a Radio Radicale la settimana prossima). Ma restano casi individuali. Collettivamente, l'Italia fa acqua da tutte le parti.
Forse è ora veramente di fare ricorso a risorse nuove, e non parlo di soldi, ma di idee.

giovedì 13 dicembre 2007

RAGAZZI, DOVE VI SIETE RINTANATI?






Peccato per chi non c'era. Perché è stato un incontro molto divertente, pieno di idee e di energia. Garantisco che i partecipanti (da sinistra in alto Francesco Delzio, Federico Mello, Michel Martone e, sotto, io) erano tutti più belli di come si vedono in foto (compresa la sottoscritta, che è venuta gigantesca rispetto agli altri, ma solo per mia incompetenza tecnica)



Dunque, a Scienze Politiche, La Sapienza, c'è stato l'incontro "AAA speranza di futuro offresi", condotto brillantemente da Giuliano Gennaio di Coalizione Generazionale e aperto dal professor Giovanni Somogyi. Partirei quasi dalla fine, perché tra il pubblico c'era Daniele Buzzurro, giovane imprenditore, che ci ha raccontato il suo calvario, quando cerca qualche giovane da inserire nella sua azienda: non li trova, o comunque non trova quelli con il profilo giusto e quel minimo di umiltà che serve per entrare in un posto di lavoro. E credo che questa piccola testimonianza abbia colpito (almeno spero) molti dei giovani presenti.



A parte ciò, riassumere tutti gli interventi sarebbe lungo e, francamente, dopo una lunga pedalata in bici con il freddo, una pizza e un bicchiere di vino....
Alcune delle domande che ci hanno attanagliato:



1)questa dei giovani trentenni (e anche ventenni) è una generazione non interessata al proprio destino? Poco propensa a fare politica? Rassegnata a farsi gestire dai soliti politici, tanto criticati? Alcuni lo hanno detto, altri pensato, soprattutto constatando che il pubblico non era proprio oceanico.


2)perché per esempio i giovani sono addirittura scesi in piazza in difesa dell'abolizione dello scalone, che è una delle mosse che più li ha danneggiati negli ultimi anni, mentre con quei soldi si potevano fare sussidi pepr giovani disoccupati, (la famosa flexicurity)? Sono preda di ideologie cieche e autodistruttive? Sono poco informati? Risposta abbastanza affermativa.



3)L'Italia ha un pessimo mercato del lavoro, un'economia frammentata, bassi salari, crescita praticamente zero, produttività stagnante, ecc. su questo siamo tutti d'accordo. Di chi è la colpa? Del debito pubblico. Ma anche di tutti noi che viviamo sereni con i soldi dei genitori, siamo figli unici, erediteremo la casa dei genitori...insomma non è proprio così, ma poco ci manca.


4) Qualche autorità superiore ci restituirà certezze sul lavoro, nelle pensioni, nel welfare? No, nessuna, inutile sperare. Non resta che riboccarsi le maniche.


5) Le " quote"potrebbero servire a qualcosa ? Sì, alla fine l'ammissione è liberatoria. Dopo anni nei quali tutti noi siamo stati contrari alle quote, ormai per giovani e donne non resta altro da tentare. Non è una conclusione unanime, ma in molti oggi intorno a quel tavolo abbiamo detto che forse è una strada. Non possiamo aspettare altri mille anni. Non possono aspettare né i giovani né le donne. E' una dichiarazione d'impotenza? Forse sì, ma è l'unico modo per portare una ventata vera di novità, per sconvolgere una situazione ammuffita che rischia di andare avanti all'infinito, quando a dirigerci saranno solo anziani maschi (meritevolissimi, per carità, forse più bravi di noi, però...anche noi vorremmo provarci) E siccome l'età media dell'elettore italiano si sta alzando vertiginosamente, partiti e sindacati ormai non hanno nessuna possibilità di fare gli interessi dei giovani. E le donne? Tema rinviato.




Quanto ad altre iniziative, per parlare di giovani, donne, lavoro, flexicurity, si è pensato a un calendario con le foto di noi giovani scrittori e cantori del precario (che vuole essere) felice, oppure a una compagnia di giro che rappresenti una specie di Porta a Porta per la riscossa dei giovani e delle donne. Noi siamo candidati. Intanto ci rivediamo e risentiamo tutti domani a Radio Radicale, grazie alla brillante Valeria Manieri (vediamo se trovo una foto... non ce l'ho, ma me la procurerò). Ascoltateci numerosi.

martedì 11 dicembre 2007

NONNI, NIPOTI E LE DOMANDE GIUSTE PER IL 13 DICEMBRE





Questa è la ripetizione di un post sparito! Non c'è di peggio.... :-(




Avevo scritto un lungo pezzo sul libro di Federico Mello "L'Italia spiegata a mio nonno"...ma ora è difficile riscriverlo uguale. Però ci provo.


Intanto confesso che ero partita un po' prevenuta, perché mi sembrava che fin dal titolo il libro fosse della serie "ah, come si stava meglio un tempo", anche se questo tempo non si sa mai qual è.


In effetti, soprattutto nella prima parte Mello fa parecchie concessioni alla retorica del precariato, però è ben documentato e molto correttamente sottolinea il fatto che dieci anni fa, quando fu introdotta la legge Treu, il grande problema dell'Italia non era il precariato, che non si sapeva neanche cosa fosse (falso, si sapeva benissimo, ma non era diventata una parola di moda) perché c'era il grande problema della DISOCCUPAZIONE!

Infatti, uno dei motivi per i quali si è sentito il bisogno di introdurre anche in Italia dei margini di flessibilità legale (perché quella illegale c'è sempre stata), era proprio il bisogno di sbloccare il mercato del lavoro per i soggetti più deboli: i giovani (e le donne).



Il libro diventa ancora più interessante quando parla del gorgo delle pensioni, che garantisce molto gli over 50 ma scivola sotto i piedi dei giovani; è interessante quando parla dei grandi cambiamenti della famiglia, cui la società non si è minimamente adeguata; delle esigenze delle donne che lavorano, che sono ancora troppo poche; di un'Italia di giovani con pochi figli, e così via.

Alla fine, la cosa più stimolante di tutte è che Mello ci invita a porre questi temi al centro dell'agenda politica. E questo è il punto. In questi anni la domanda è sempre stata, da parte di alcune posizioni ideologiche: come abolire la flessibilità (intesa come precarietà)? Invece il libro di Mello spinge secondo me a porre le domande giuste, quelle che i giovani dovrebbero pretendere fossero poste ai politici: come trasformare la società italiana, come sbloccarla, come dare più opportunità a giovani e donne? Come rendere più moderno il sistema delle imprese e l'intero mercato del lavoro? In fin dei conti: come aiutare la società italiana a trasformarsi in un posto dove tutti possono vivere meglio, soprattutto i giovani che finora sono stati invece i più trascurati?


Ecco, queste sono le cose di cui credo che discuteremo giovedì 13 alla Sapienza di Roma, Scienze Politiche, con Mello stesso, con Francesco Delzio (autore di Generazione Tuareg di cui ho già parlato qui) e con Michel Martone, brillante giuslavorista, coinvolto nella questione anche per una questione generazionale, essendo uno dei docenti universitari più giovani d'Italia. Coordina Giuliano Gennaio.
Il dibattito (vedi il video) è stato organizzato da Coalizione Generazionale, e ospitato dal professor Giovanni Somogyi, direttore del Dipartimento di Economia. Ma i veri animatori dovrebbero essere gli studenti, i diretti interessati.

domenica 9 dicembre 2007

CERCARE LAVORO NELLA MUCILLAGINE




Che prospettive di lavoro può dare una società poltiglia? Ben poche, ovvio! E con la diagnosi del Censis su questa strana "mucillagine" che ci avvolge si potrebbe anche chiudere questo blog...: cari signori, ringraziate di trovare qualcosa, perché le prospettive sono nere, per colpa non solo dei politici ma di tutta l'intera società, cioè noi stessi! Fine.




Detto questo, invece, a cercare tra i dati del Censis qualcosa di utile emerge: intanto che aumentano i nuovi lavoratori. Tra il 2004 e il 2006 ci sono stati quasi 600 mila nuovi posti di lavoro. Però è vero che nell'ultimo anno la crescita dei posti di lavoro è rallentata, con tutto il resto dell'economia (e le previsioni per il prossimo anno sono ancora più grigie). E chi sono quelli che hanno trovato uno di questi nuovi posti di lavoro? Soprattutto profili tecnici intermedi, ci informa il Censis: tecnici dell'amministrazione e organizzazione aziendale, i contabili, gli addetti al controllo di produzione, al trattamento delle informazioni, i corrispondenti in lingue. E poi le professioni paramediche, i tecnici delle scienze ingegneristiche, delle scienze quantitative, dei rapporti con i mercati, della distribuzione commerciale e delle attività finanziarie e assicurative. Favoriti dalla specificità dei profili in crescita soprattutto donne e giovani. Inoltre, per la prima volta dopo anni, nel 2006 e 2007 sono ripartite le assunzioni di laureati (salite dal 6,5 del 2003 al 9% del 2007) e dei diplomati con qualifica superiore (dal 26,6% al 34,9% dei nuovi assunti). Ovviamente però, per quanto riguarda l'occupazione delle donne, l'Italia rimane la maglia nera d'Europa: siamo dietro non solo alle solite Islanda, Danimarca, Svezia, Norvegia, Germania, Gran Bretagna, ma anche a Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Ungheria, e anche parecchio al di sotto della Grecia. C'è solo da arrivare a sperare che i dati siano compensati dal lavoro nero! E perché da noi molte donne tra i 15 e i 64 anni non cercano un lavoro? Il primo motivo è "per prendersi cura di figli e altre persone non autosufficienti". Buffo, visto che siamo anche il paese d'Europa che fa meno figli! Ma forse le donne che non lavorano si prendono cura per prima cosa di anziani non autosufficienti?! Sì, è così, perché a quelli il nostro presunto welfare ci pensa ancora meno che ai bambini.
Nelle motivazioni delle donne che rinunciano c'è anche la convinzione di non riuscire a trovare un lavoro e poi dei misteriosissimi "altri motivi" , che rappresentano una percentuale non irrilevante, e che il Censis non ci svela. Peccato.



PS: A proposito, per chi ha apprezzato il post sugli studenti e i lavoratori che vogliono andare all'estero... il Censis ci informa che nell'ultimo anno 38.690 studenti italiani si sono iscritti in università straniere; 11.700 di loro hanno trovato un lavoro all'estero subito dopo la laurea. E tra gli italiani ad elevata qualificazione 13.368 si sono spostati per lavoro dall'Italia agli Stati Uniti. Temporaneamente, dicono.

giovedì 6 dicembre 2007

IL BONUS VACANZE


Il tempo libero è uno dei valori fondanti del nostro tempo, anche per disoccupati e precari. Che questa non sia solo una provocazione, lo dimostra l’ultimo emendamento in Finanziaria: il bonus-vacanze. L’onorevole del Pd Leddi Maiola l’ha presentato oggi: dovrebbe essere rivolto alle fasce più deboli ed è destinato anche all’industria del turismo che si vedrebbe arrivare un certo ”flusso” anche in bassa stagione.

Che questo ci dica qualcosa su uno dei nostri valori fondanti è evidente, appena ci si riflette un po’: chi mai avrebbe potuto avere un’idea simile nei decenni passati? Negli anni ’50 e 60 in vacanza ci andava solo chi poteva, e anche per quelli non era un ”must”. Io ricordo lunghe estati da pendolari al mare di Roma, e non eravamo indigenti. Già negli anni 70 e 80 le vacanze , anche da poveri, sono diventate sempre più diffuse. Ma, ancora, anche allora uno studente o andava in campeggio , o andava a lavorare nei campi di fragole, oppure era un bel privilegiato. E se un’estate aveva da fare la tesi o doveva lavorare per il suo futuro, le vacanze passavano tranquillamente in secondo piano. Oggi no. La vacanza è più importante della ciriola. Anche se ancora si protesta per il prezzo del pane, mentre non ho mai sentito nessuno protestare per il prezzo dei viaggi a Sharm (che notoriamente sono ”economici” per chi se li può permettere).


Questi buoni-vacanza non andranno lontano. Rimarranno sicuramente un emendamento effimero e senza soldi. Ma ricordiamocene, perché qualcuno ha osato posare una pietra.

martedì 4 dicembre 2007

LE "CATENE" DEL LAVORO


Proseguendo il discorso sul mercato del lavoro italiano e su tutti gli ostacoli che impediscono una flessibilità "buona", che faccia bene alle imprese ma direi ancora di più ai lavoratori, segnalo un bellissimo dossier, pubblicato sull'ultimo bollettino della Fondazione Marco Biagi: "Lavoro: il peso della regolazione", a cura di Iacopo Senatori e Michele Tiraboschi.


Tanto per cominciare, il dossier cita il rapporto annuale della Banca Mondiale che in rapporto alla facilità di fare impresa colloca l'Italia al 53° posto! Veniamo "dopo tutti"! L'Italia è uno dei paesi con il peggior mercato del lavoro del mondo occidentale e non è certo un paese dove investire e creare lavoro a cuor leggero.
Il dossier analizza anche le potenti e quasi diaboliche rigidità del nostro mercato del lavoro che, senza tutelare particolarmente il lavoratore, però impediscono al sistema di funzionare in maniera semplice ed efficiente.



Per quanti, anche su questo blog, guardano giustamente all'estero, segnalo i confronti con altri paesi europei e con gli Stati Uniti. Nella tabella con l'indice della difficoltà a licenziare, l'Italia ha l'indice 40; come noi stanno la Francia, ma anche la Germania e la Svezia. Negli Usa questo indice è 0 (zero), il che vuol dire che non c'è il minimo impedimento al licenziamento, nel Regno Unito e in Danimarca questo indice è 10, quindi bassissimo.
Difficoltà ad assumere: in Italia l'indice è 33 (Francia e Spagna stanno peggio di noi), negli Usa è sempre 0 (zero), in Danimarca 0 (zero), nel Regno Unito 10. Mi sembra che questi dati meritino una riflessione. Soprattutto, ricordo che quando qui qualcuno ha detto "magari fossimo in Irlanda, Gran Bretagna, Danimarca"....e il nostro lettore "'Imprenditore" ha detto anche lui "magari". E si capisce perché: le nostre rigidità, tese in teoria a costituire delle "tutele", si trasformano spesso in boomerang per gli stessi lavoratori.

domenica 2 dicembre 2007

STUDIARE E LAVORARE ALL'ESTERO


Vent'anni fa, appena laureata in filosofia, tesi in storia moderna e contemporanea, appassionata di antropologia culturale, accarezzai l'idea di andare all'estero: per continuare a studiare, per lavorare. Un fidanzato importante, le amicizie, la pigrizia, tante illusioni, mi trattennero. Fu uno sbaglio. Anche se il lavoro mi ha dato e mi dà delle soddisfazioni, credo che l'Italia non valorizzi abbastanza i propri talenti.
Ora, qualunque giovane laureato intervisti, a qualunque blog mi attacchi, non si sentono altro che esperienze di quelli che dicono addio Italia, non mi meriti. La maggior parte sono testimonianze di persone in gamba, con una buona laurea, che in Italia si sono trovate ad annaspare in un vuoto sconcertante. Quindi hanno fatto le valigie, hanno preso qualche contatto e, spesso, raccontano di porte che si spalancano, di stipendi che aprono il cuore, di una vita felice, di ampie possibilità di crescita professionale. Comunque sono contenti. Io stessa ho conosciuto giovani che in Italia avrebbero, sì, trovato dei lavori, ma che all'estero hanno scoperto un ambiente molto più stimolante e posizioni di maggiore soddisfazione.
Ma quanti sono quelli che vanno a lavorare all'estero? Non è facile stabilirlo. Qualche dato esiste solo per i ricercatori universitari, per i quali si parla da anni di fuga dei cervelli. Che non si inverte mai. Ma chi va nelle aziende private non appare in nessuna statistica. Certo, sono numeri piccoli, saranno alcune migliaia (cosa vuoi che siano di fronte a 2 milioni di lavoratori a tempo determinato). Però è un fenomeno rilevante. E' vero, le cifre dicono che in altri paesi dell'Occidente il numero dei laureati senza lavoro è veramente esiguo. Da noi invece sono quasi troppo qualificati per le aziende. E allora? Con chi prendersela?
Difficile dirlo. E' una buona parte del mercato e del sistema produttivo che, a quanto pare è obsoleto. Solo un maggior numero di laureati, a lungo termine, lo può risollevare. Ma se poi quei laureati non trovano posto, ecco che il circolo non è virtuoso, bensì vizioso...viziosissimo!
Una strada sicura una volta era fare un master in una università straniera e, poi, da lì, cercare delle opportunità. Ma ormai i canali per cercare lavoro all'estero non si contano. Chi è bravo, intraprendente e sa almeno una lingua (pollice verso se non la sa: vada a lavare piatti per sei mesi in un paese anglofono!) ha buona possibilità, almeno stando a quello che si racconta. Non ho mai sentito una storia in negativo, anzi se ci fosse sarebbe probabilmente l'eccezione che conferma la regola.
Nell'ultimo numero di lavoro è si parla proprio di andare a studiare e lavorare all'estero. E si segnalano anche due link utili: Eures portale per chi vuole lavorare in Europa, e Ploteus per chi vuole studiare in un altro paese europeo. Fatemi sapere.

martedì 27 novembre 2007

SOGNANDO DANIMARCA



C'è un paese che ormai viene costantemente portato ad esempio, sia per la condizione dei lavoratori, sia per quella delle donne. E' la Danimarca. Su La Repubblica del 26 novembre il paese è descritto come "La fabbrica dei papà perfetti". Non a caso. Perché come stiamo sottolineando da un po', è solo nel paese in cui i papà si sentono responsabili dei problemi familiari e in particolare dei figli, che le donne possono liberarsi un po' del loro insostenibile fardello. Come abbiamo raccontato nel post dedicato all'avvocato Giulia Bongiorno, se un'azienda ha gli stessi oneri di "paternità" e/o di "maternità" nei confronti dei dipendenti, non avrà nessun motivo per preferire l'assunzione di un uomo a quella di una donna.

Non a caso la Danimarca ha una percentuale di donne che lavorano del 77,4% (rispetto al 46,3% dell'Italia), e ha anche un tasso di natalità superiore a quello dell'Italia: da noi siamo a 1,3 figli per donna (già in risalita) mentre in Danimarca il numero di figli per donna è 1,7 ..... Da noi le donne ambiscono a essere mamme perfette, spesso sono costrette a stare a casa, eppure le culle sono vuote. Bel risultato!.

Ma, a sentire gli esperti danesi, (vedi l'intervista all'esperto danese nel bollettino n. 42 della fondazione Marco Biagi) la Danimarca non è così lontana: hanno una forte sindacalizzazione dei lavoratori e una grande centralità dei contratti di lavoro nazionali. Proprio due caratteristiche che sono proprie anche dell'Italia. E' vero però che in Danimarca c'è una tradizione "partecipativa" e di collaborazione lavoratori-imprenditori che da noi manca. Comunque vale la pensa diventare tutti un po' più "danesi".


Infine, anche nel numero di Newsweek della settimana scorsa la Danimarca viene additata ad esempio per le riforme nel mercato del lavoro per paesi con gravi problemi di declino e difficoltà nel settore della produttività e del mercato del lavoro. L'esempio su cui si dilunga Newsweek è quello del Giappone, ma a molte affermazioni che riguardano il Giappone basterebbe sostituire la parola "Italia" e ci si accorgerebbe che il ragionamento funziona lo stesso.

sabato 24 novembre 2007

PARITA', LAVORO, PENSIONI: LA LUNGA STRADA DELLE DONNE

"Sul lavoro le donne fanno molta più fatica dei loro colleghi maschi ad affermarsi, in termini di stabilità, retribuzione e carriera". Testuale, dall'ultimo rapporto Isfol.
Ciò avviene nonostante le donne studino più degli uomini: nel 2006 il 57,3% dei laureati è costituito da donne. Unico difetto, se lo si può considerare tale: le ragazze continuano a preferire in larga misura lauree del settore umanistico. Questo certamente non sempre le mette alla pari nel mercato del lavoro. Ma i dati chiave sono altri tre:1) molte donne non entrano proprio nel mercato del lavoro, e sono quasi 10 milioni quelle in età lavorativa che non cercano un impiego (il numero degli uomini è circa la metà)
2) in Italia lavora solo il 47% delle donne (l'obiettivo fissato dall'Europa per il 2005 era il 57%)
3) il 67% delle donne ritiene il proprio orario di lavoro troppo lungo e fa fatica a conciliare il lavoro con gli impegni familiari. Insomma, ciò che dovrebbe essere normale (e per gli uomini lo è: cioè avere una vita familiare e anche un lavoro cui dedicarsi) per le donne è sempre il risultato di un doppio salto mortale. Quelle che ci riescono, garantisco, fanno una fatica enorme!

Aggiungo l'appello della campagna dei radicali "Proteggimi di meno, includimi di più", che propone l'innalzamento dell'età pensionabile per le donne, per portarlo alla pari con quello degli uomini. Ecco i due bei video della campagna e il link per firmare l'appello



mercoledì 21 novembre 2007

IL "LAVORO" NON PIACE PIU'?


Ho già avanzato in passato l'idea che negli ultimi anni in Occidente si sia diffuso un distacco da quella che era una volta "l'etica del lavoro" a favore di una nuova "etica del tempo libero": E' un'idea un po' provocatoria, in un periodo nel quale si parla di lavorare di più, nel quale alcuni orari di lavoro si allungano e si dilatano anche nelle serate e nei weekend, nel quale si lavora anche da casa o dalla vacanza con computer, palmari e cellulari.



In questa direzione sembra andare, sotto forma di interrogativo, il numero in edicola di "è lavoro", l'inserto di Avvenire. Francesco Riccardi scrive: l'impressione è che "il lavoro piaccia sempre meno. Nel senso che viene rifiutato perché considerato non all'altezza delle proprie aspirazioni e (legittime) attese, soprattutto da coloro che hanno raggiunto livelli di istruzione mediamente più elevati...Il lavoro ha sempre avuto aspetti alienanti o frustranti, ma nei decenni passati rappresentava al tempo stesso lo strumento principe dell'affermazione della propria identità, del proprio ruolo all'interno della società. Oggi solo alcune professioni, nel sentire comune, sono in grado di definire un'identità personale".



Intorno a questa "suggestione" ovviamente il ragionamento è complesso. perché tanti salteranno su a dire che questo per loro non è vero, che anzi ci sono discriminazioni e barriere all'accesso. E infatti Riccardi parla anche di questo. Però, nell'epoca della società "liquida" (cfr Zygmunt Bauman) e dell'individuo dall'identità mutevole, c'è anche il sentimento di tanti giovani che non si sentono più definiti dal lavoro. O comunque non hanno bisogno del lavoro per "vivere", ma solo per sopravvivere. Sarà vero?

martedì 20 novembre 2007

I VERI MASCHI SONO I "MAMMI"





Se ne vedono e sentono sempre di più: uomini che si occupano dei bebè, che prendono i congedi per paternità, che fanno le pulizie, che giocano con le figlie, che fanno le stesse cose delle mamme. Tra i padri celebri, se ne vedono anche all'estero: tipo Milliband, il ministro degli Esteri britannico, che ha preso il congedo di paternità nonostante gli impegni intarnazionali. E' successo anche nel governo di Berlino. In Italia, ma non solo, la domanda sotterranea è: ma questi padri non finiranno per essere un po' meno maschi"?


Se lo chiede anche il settimanale Time, con un bell'articolo pubblicato nell'ultimo numero, Fatherhood 2.0 , che è come dire Paternità 2.0. E la domanda, di fronte ai padri-mammi, si trasforma in un'altra: cosa significa essere un uomo oggigiorno? Si è modificata l'idea di mascolinità?
La risposta di Time, settimanale prima di tutto americano, è che sì, gli uomini sono cambiati, non solo i padri. Sono cambiati in meglio. E questi loro cambiamenti , questo allontaamento dalla vecchia idea di "maschio", li aiuta sul lavoro, nel matrimonio nei rapporti con i bambini...e li fa sentire meglio, sia fisicamente che mentalmente.
Due possbili svantaggi: 1) sempre di più madri e padri tengono più al rapporto con i figli che a quello fra di loro; 2) non sempre le aziende sono pronte ad accettare questi nuovi padri, che non mettono il lavoro davanti a tutto, e alcuni uomini sono ancora riluttanti nel prendere dei congedi per paternità.
Tutto questo negli Stati Uniti.
In Italia, paese dei "veri maschi" e delle "super mamme", siamo ancora più lontani. Però, se è vero che la vera rivoluzione, dopo quella delle donne, ora la stanno facendo i nuovi maschi,...bè può essere molto interessante. Anche perché vale la pena di riflettere su questo punto chiave: se anche i padri sacrificassero un po' il lavoro per i figli, le madri sarebbero automaticamente meno svantaggiate!

lunedì 19 novembre 2007

ITALIA, TROPPO COMPLICATA PER GOOGLE




C'è un concorso internazionale, di cui ho scoperto l'esistenza solo leggendo un post tristemente esilarante sul sito di Gianluca Salvatori: è il concorso Android Developer Challenge, lanciato da Google. Gli esperti di tecnologia e computer sicuramente capiranno meglio di me di cosa si tratta. Ma la cosa chiarissima è che l'Italia, quasi unica al mondo, sembra che non possa partecipare a questa gara, indovinate perché? Per l'eccesso di complicazione burocratica. Gianluca giustamente soprannomina "Borbonia" il Paese nel quale avviene tutto ciò.

Ora, nella migliore tradizione, spunta invece un esperto di diritto informatico Guido Scorza che dice invece che si può: ha trovato il cavillo giusto! Tutto ciò mi sembra talmente usuale, talmente tipico di ciò che avviene in Italia che merita comunque una riflessione. E invito anche chi ne capisce qualcosa in più a tentare di spiegarcela. Vedremo come va a finire.

venerdì 16 novembre 2007

I TUAREG SI TURANO IL NASO E PROPONGONO LE QUOTE

LINK AGGIORNATI

Un piccolo libro dalle grandi ambizioni, Generazione Tuareg, un libro che unisce visione, brillantezza, coraggio e senso politico. Lo consiglio a tutti: under 30 sfiduciati e pessimisti, e under 50 impantofolati. E soprattutto lo consiglio a chi cerca una bussola, non potendone più di luoghi comuni, di lamentele, di accuse dirette a fantomatici responsabili, che sono sempre gli altri, della "mistica della precarietà", che io stessa cerco di combattere con tutte le mie forze. Non certo per togliere orza ai giovani della generazione "precaria", ma per dargliene, perché come conviene Delzio, il problema del nostro mercato del lavoro, non è l'eccesso di flessibilità. Piuttosto è un'eccesso di rigidità, all'interno della quale la flessibilità viene vissuta come eccezione, come condanna, non supportata da servizi e strutture, a loro volta, flessibili.

Delzio, direttore dei giovani imprenditori di Confindustria, forte di esperienze qualificate e internazionali, si inserisce in quello che ormai è un filone, e ne abbiamo parlato anche su questo blog più di una volta: il filone "più merito, più mercato = più opportunità, più democrazia". Se posso chiosarlo, è il filone che vuole finirla con la credenza, durata anche troppo, che l'appiattimento al livello più basso faccia un favore ai più svantaggiati. Ho già citato qui il libro di Floris, Mal di merito: lo rifaccio per segnalare una pagina sul Messaggero di oggi.

Non è democratico, per esempio, far credere che l'università uguale per tutti, a costi bassissimi, sia una conquista: non è altro che la certificazione della sua inutilità, perché "chi può" farà altro, studierà in posti più prestigiosi, entrerà nel mercato del lavoro per altre strade, lasciando con un palmo di naso chi credeva che bastasse quel suo povero pezzo di carta a conquistare chi sa che cosa."Per cambiare l'Italia - dice Delzio (che ha ambizioni politiche) in una delle ultime pagine del libro - la nostra generazione deve abbandonare definitivamente l'illusione del ritorno all'età dell'oro, la ricerca spasmodica e frustrante delle certezze perdute". E' un passaggio chiave. Ciò che è stato (o che molti credono che sia stato) per fortuna non tornerà più: d'altra parte, ai giovani non piacerebbe neanche un po' quell'Italia anni Sessanta nella quale sono cresciuti i loro padri. Quindi "dobbiamo riaccendere la speranza", dice Delzio: I giovani devono "riaccendere i motori" dico io.

La mia copia del libro Tuareg è piena di sottolineature di diversi colori e di "orecchie" sulle pagine: è l'unico modo per appropriarsi di un libro, e questo dimostra che l'ho trovato veramente ricco di spunti. Molte delle cose che dice sono le stesse che dico io, che diciamo qui ormai da mesi. Voglio sottolineare solo un passaggio, tra i tanti, una nota operativa: "In situazioni di crisi della rappresentanza, di fallimento del mercato della politica, di resistenza culturale, le quote sono l'unico rimedio possibile. Rimangono una soluzione d'emergenza, ma diventano un "male necessario" per avere più giovani in Parlamento. E' necessario stabilirlo per legge..." QUOTE. Questa parola, riferita per decenni alle donne, per molto tempo mi sembrava intollerabile, mi faceva ribrezzo: era il segnale di uno stato di minorità, mi sembrava una misura paternalistica, una "concessione" autoritaria. E, vista la mia tendenza a rifiutare autorità che non siano anche autorevoli, ho sempre avversato questa idea. Ma anche io alla fine ho capitolato: le quote sono l'unico modo, veloce, di rottura, per rovesciare una situazione che in Italia può trascinarsi ancora per decenni, forse per secoli (e non è un modo di dire). Delzio ha ben presente il fatto che, in questo momento, donne e giovani sono accomunati da molti elementi. Entrambi sono portatori di novità, ma non riescono a sfondare il "soffitto di vetro": Quindi, sì alle quote per giovani e donne, e via.

giovedì 15 novembre 2007

PRECARI NELLA PA, SERVE IL CONCORSO


Stabilizzazione dei precari: la sinistra di lotta e di governo ha ottenuto quello che voleva, anche l'ala diniana ha avuto la sua piccola vittoria, ma soprattutto ha vinto la logica che una qualche selezione ci vuole: tutta l'Unione ha votato l'emendamento di Natale D'Amico che garantisce l'assunzione a tempo indeterminato solo a coloro che sono entrati tramite «procedure selettive di natura concorsuale». Viene escluso inoltre «il personale di diretta collaborazione degli organi politici» (i portaborse). Per i Co.Co.Co, in sede di concorso, verrà riconosciuto in termini di punteggio «il servizio prestato presso le pubbliche amministrazioni per almeno tre anni, anche non continuativi», nei cinque anni precedenti alla data del 28 settembre 2007.


Quale sarà poi l'applicazione di questa norma, cioè se servirà ad evitare assunzioni di massa ope legis (e relativo "tappo" a qualunque nuova assunzione per i prossimi dieci anni), e se rimarrà un po' di spazio per dei giovani bravi, è quello che dovrà essere verificato. Ma il principio è salvo.

martedì 13 novembre 2007

E LUCA DISSE: RAGAZZI FATE COME ME...






Luca ha raccontato di quando, finita l’università, pensava di fare l’avvocato. Un avvocato di diritto internazionale, un avvocato d’affari, roba forte, mica un avvocato qualunque, uno che aveva studiato alla Columbia University. E invece lo chiamarono dall’Italia e finì ad occuparsi di macchine. Certo, non macchine qualunque: si trattava di Ferrari, e lui è Luca Cordero di Montezemolo, oggi presidente di Confindustria. La sua esperienza non è esattamente riproducibile, ma la sua voglia di dare una carica agli studenti che aveva di fronte stamattina era evidente. Montezemolo ha parlato all’inaugurazione dell’anno accademico all’università di Modena, nell’Auditorium della Fondazione Marco Biagi, che lo aveva invitato. Poco prima aveva concluso un discorso sul merito come fattore principale di giustizia e di innovazione sociale ed economica. Aveva invitato ad abbandonare gli ideologismi e a difendere la legge Biagi, che ha svecchiato le rigidità del mondo del lavoro e ha fatto scendere la disoccupazione. Aveva parlato dell’esigenza di dotare l’Italia di ammortizzatori sociali, per difendere anche i lavoratori più svantaggiati dalla flessibilità. E soprattutto aveva rivolto un pensiero al governo, che dopo aver concluso il protocollo sul welfare ora si trova di fronte a 500 emendamenti in Parlamento. Montezemolo ha esortato il governo a difendere quell’accordo. “Se verrà modificato sarà un attentato alla pratica della concertazione” ha detto, anche se nessuno vuole togliere al Parlamento la sua sovranità. Ma sarebbe grave dare un colpo alla concertazione, che oggi va ripresa e rinnovata: “si trasformerebbe la concertazione in un inutile gioco di società. E non si può umiliare ol ruolo negoziale delle parti sociali”.
Ma, detto tutto ciò, Montezemolo ha chiuso il discorso scritto e ha cominciato a solleticare l’uditorio: tutti ragazzi e ragazze. Ha chiesto delle domande e ha quasi costretto una bella bionda a chiedere qualcosa…che poi è stata anche una domanda giusta, sullo scarso appeal delle facoltà scientifiche, dove si iscrivono troppo pochi studenti. “Studiate – ha esortato Montezemolo, anche se ci sarebbe stato da chiedergli quanto studioso fosse lui a 20 anni – studiate, ma non solo sui libri – ha aggiunto -. Leggete l’Herald Tribune, che non parla di politici e delle loro dichiarazioni, ma è una finestra sul mondo. Studiate quello che vi sta intorno, siate curiosi, andate in gito. Fatevi una fidanzata straniera. Non pensiate che l’università debba ssere condominiale, muovetevi, apriteli alle sfide. Abbiate coraggio, e pretendete che chi è bravo venga messo in condizioni di vincere”.
Alla fine della seconda parte gli applausi non erano formali, qualche futuro manager domani potrà ricordare di essere stato galvanizzato anche da un discorso così…
Qualcun altro dirà: e gli altri? I meno fortunati? Chi non è tanto bravo, chi non studia in facoltà prestigiose, chi non si chiama Montezemolo? Ricette in tasca credo che non ne abbia nessuno. Ma in tanti ormai stanno battendo sul tasto della meritocrazia: leggete un bel libro del giornalista Giovanni Floris “Mal di merito”. Anche lui non vede altra strada, proprio per i più svantaggiati. Per chi vuole salire più in alto dei propri genitori, per chi vuole realizzare i propri sogni: cercare di essere più bravo. Fortunato quel Paese che riesce a premiare i migliori, soprattutto se non si chiamano Luca Cordero di Montezemolo. L’Italia, come ci racconta Floris per circa 200 pagine, per ora ci riesce pochissimo.

sabato 10 novembre 2007

COME SALVARSI DALLA PRECARIETA'...E ANCHE DAL POSTO FISSO



Parlerò del mio libro agli studenti dell'università di Modena, martedì 13 novembre pomeriggio. (Nella foto Piazza Grande, nel centro di Modena)



Sarò alla Fondazione Marco Biagi, "presentata" dal professor Michele Tiraboschi, alle 17,30. Sono molto ansiosa di ascoltare e rispondere alle domande degli studenti.
Insieme a me ci sarà un altro collega, sia di giornali che di libri: Massimo Sideri, autore di "Come salvarsi dal posto fisso", Il Filo editore. Il suo è un pamphlet,divertente e provocatorio; "Precari e contenti" invece è un libro giornalistico con due obiettivi:
1) sfatare l'idea che il mercato del lavoro in Italia per i giovani sia il peggiore della nostra storia. Non è vero, ci sono anche tante opportunità. Ma permangono difetti enormi e vecchi di decenni, che andrebbero prima o poi affrontati, se vogliamo modernizzarci e dare più speranze di futuro ai giovani. Questi ultimi devono adattarsi a un mondo di cambiamenti, e in questo tutta la società li dovrebbe accompagnare e appoggiare.
2) il secondo obiettivo è rivolto ai singoli: data la situazione attuale, che è quella che è, vi racconto le storie di chi è riuscito a trovare un proprio posto nel mercato del lavoro, perché forse vi possono suggerire qualcosa su come cavarvela anche voi, quali errori evitare, su cosa puntare. Non è facile, ma i singoli si devono pur "salvare" . Non hanno il tempo di aspettare palingenesi di là da venire.

giovedì 8 novembre 2007

NEI PANNI DI UN IMPRENDITORE






Voglio approfittare della palla alzata da Max Cosmico su imprenditori e produttività, per segnalarvi il blog di un imprenditore che ci segue da un po' e che secondo me scrive cose interessanti. ..A lui sembrano più che normali , ma è questione di punti di vista! Siccome è importante mettersi qualche volta nei panni di chi è dall'altra parte della barricata, vi invito a leggere questo post, dal titolo "PESI E SPALLE" , sul blog "l'imprenditore":
"Fare l'imprenditore è un bel lavoro. Si fa solo se è una passione, visto che..... "



Chi ha voglia e tempo, si legga il libro di un collega giornalista, che a un certo punto si era messo in testa di aprire una piccolissima attività commerciale: Luigi Furini "Volevo solo vendere la pizza", Garzanti. E' molto divertente...!


mercoledì 7 novembre 2007

I MASTER SERVONO VERAMENTE?






Spesso si sente dire: ho un master, io! Il mio amico Max Cosmico, nel suo "Mille euro blues" canta: "Ho una laurea e un Mba (Master in Business Administration)" Eppure, non sempre chi lo dice è molto soddisfatto dei risultati di questi master. Perché ? Ma allora si potrebbe invece dire che il master non serve a niente? La verità è che non si può generalizzare: come per la laurea, il pezzo di carta, tanto caro a una tradizione italica, non basta. Bisogna vedere la qualità dello studio che si è fatto, dove, con chi, con quali risultati. Le ricerche di Almalaurea sull'utilità occupazionale dei master non danno risultati chiari: a volte, in alcuni settori, il master aumenta le probabilità di lavoro; in altre non fa differenza; in altre ancora si può dire che può essere anche dannoso, perché rimanda ancora di più l'ingresso sul mercato del lavoro.

Sull'inserto di Avvenire di oggi ,"è lavoro", c'è un bell'articolo di Mauro cereda sui "Masterizzati del Sud", dal quale risulta che la maggior parte dei giovani laureati che frequenta master al Nord, proviene dal Sud. Da una parte è una scelta giusta, perché ovviamente chi ha studiato in aree più svantaggiate pensa di fare un buon investimento lavorativo andando al Nord. Ma l'importante, non si finirà mai di dirlo, è valutare l'istituzione che propone il master, i possibili sbocchi occupazionali, capire se ci sono aziende coinvolte (che quindi possono avere interesse ad assumere chi ne esce con buoni risultati). L'articolo conclude: un master ben fatto è garanzia di occupazione".

Ma, aggiungerei, un master mal fatto è peggio che inutile: provoca solo frustrazione, fa spendere soldi e crea aspettative che rischiano di andare deluse.

martedì 6 novembre 2007

CONCORSI E PRECARI NON VANNO D'ACCORDO



Prima di tutto una buona notizia. Vi ricordate di quel lettore che aveva raccontato qui la sua storia di Ivano bibliotecario precario ma felice? Dei suoi anni di volontariato, della sua passione e dedizione per la biblioteca, poi trasformatasi in lavoro...doveva fare finalmente un concorso, ma aveva paura di non farcela. La paura a volte è benefica, perché ci fa dare il meglio di noi stessi: Ivano ce l'ha fatta. Al concorso per assistente bibliotecario è arrivato primo e ora tocca il cielo con un dito. La sua passione è stata ricompensata. E' anche un po' una piccola soddisfazione per me, che in lui avevo creduto.
A proposito di concorsi, ecco il secondo argomento: i precari nelle amministrazioni publiche. Prendersela con loro sembra proprio una cattiveria: non solo sono precari, non solo li pagano poco, in più spesso fanno il lavoro anche per i loro vicini di scrivania (dipendenti pubblici a vita) che a volte lavorano poco, senza rischi per il posto. Eppure...

...eppure anche io come Nicola Rossi (ieri sul Corriere della Sera) e Marco Follini (oggi), credo che non sia per niente giusto assumerli per legge, anzi stabilizzarli, come pudicamente si dice, e come prevede la finanziaria in un articolo abbastanza controverso. Sempre perché ritengo che chi ha una visione politica debba pensare all'equità e al futuro. Altrimenti si pongono le premesse per altre ingiustizie e altre calamità. Si è deciso di assumere a tempo indeterminato un tot di persone nella PA? Si facciano dei concorsi. Si vuole riconoscere il lavoro svolto? Si assegni un punteggio equo a questo lavoro. Ma, per favore, si dia la possibilità a chi viene dopo di loro di trovare delle opportunità, e non solo un muro, cementato dal'assunzione di massa dei vecchi precari.
Poiché noi donne partiamo sempre dalle esperienze personali per conoscere la realtà, vorrei ricordare che già negli anni '70 erano nati i precari dell'università. Erano brillanti laureati che si erano messi a lavorare con i loro professori, senza particolari formalità. Dopo qualche anno, per legalizzare questa massa di lavoro qualificato ma irregolare, furono assunti tutti, ope legis come si diceva allora. Noi giovani che arrivammo subito dopo trovammo l'università "intasata" da questi assistenti (alcuni bravi, altri no) e molti di noi rinunciarono alla carriera universitaria e alla ricerca. La stessa cosa è successa nella scuola. E così si sono stroncati tanti giovani che a 23- 24 anni non chiedevano di meglio che fare un bel concorso e tentare di vincerlo per merito. Ecco perché sono contraria alla "stabilizzazione" dei precari nella PA senza concorso.
Ultima notazione, Epifani, leader della Cgil, è stato contestato da un gruppo di studenti all'università Roma Tre. Gli contestano l'accordo sul welfare, la legge Biagi, un presunto giro di vite nella scuola, tutto. Penso che la maggioranza degli studenti dovrebbe apprezzare i tentati di mediazione di Epifani, oppure contestarlo per motivi esattamente opposti. Nel proprio interesse.

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