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lunedì 17 dicembre 2007

FLESSIBILI E PRECARI


Qual è la differenza tra flessibilità e precarietà? Questa è stata una domanda venuta dai ragazzi che hanno partecipato al dibattito di oggi in via Salaria alla facoltà di Sociologia e Scienze della Comunicazione. La domanda è arrivata alla fine, quando ormai si andava di fretta. E' una bella domanda, ma anche un po' maliziosa: come se si volesse incanalare la discussione su binari lessicali, o comunque di carattere sistematico- generale...quasi che il problema siano le definizioni, e non la realtà.







La realtà (e qui rispondo anche alla domanda) è che la flessibilità fa e farà sempre di più parte della nostra vita. Perfino in Italia, paese che, lo si ammetta o no, è piuttosto restio a lanciarsi nelle novità di carattere sociale profondo. La flessibilità è un fatto. E non è legato solo al modo di prduzione post fordista, ma fa parte di tutto il nostro mondo. Lo spiega benissimo Massimo Paci, nel suo libro "Nuovi lavori, nuovo welfare" quando parla del processo di individualizzazione, che porta con sè libertà e autonomia. Un processo che si può rintracciare fin dalla riforma protestante o forse fin dal Rinascimento oppure, aggiungerei, fin dalle radici del cristianesimo (almeno come lo abbiamo interpretato in Europa). Se comunque rimaniamo all'ambito economico, la flessibilità produttiva ha investito da tempo tutto l'Occidente. Uno dei risvolti positivi della flessibilità, per fare un esempio, è che consente al lavoratore di usufruire di tempi di lavoro che gli permettono di svolgere altre attività, come per esempio seguire i figli. Anche il part-time è una forma di flessibilità. Per i consumatori la flessibilità è la possibilità di trovare più commessi nei grandi magazzini nei giorni di acquisti, le automobili del colore che vogliono in tempi relativamente rapidi, gli uffici aperti in orari in passato impossibili. La flessibilità dei lavoratori permette a molte donne lavoratrici di fare la spesa la domenica. Sono solo esempi.

E la precarietà? La precarietà è un concetto che contiene in sé già un giudizio negativo. Il senso di incertezza, di insicurezza. In che modo si lega alla flessibilità? Intanto si lega psicologicamente, per chi non è abituato alla flessibilità. In particolare, l'Italia non è preparata perché ha fin troppo enfatizzato nel passato le tutele per certi tipi di lavoro (per esempio pubblico) e perché manca quasi completamente di tutele adatte alla nuova organizzazione del lavoro. In concreto, in un mercato del lavoro rigido, oggi la gran parte della flessibilità pesa sulle spalle dei più giovani, che però non hanno, a differenza dei loro coetani danesi o norvegesi, sussidi di disccupazione, salari minimi, prospettive di pensione minima, accesso a mutui e prestiti semplici, e così via. Ed ecco fatta la frittata della precarietà. Che non si cancella certo abolendo con un tratto di penna la flessibilità, ma solo cercando di introdurre tutte quelle altre cose che mancano.

Aggiungo un punto-chiave, di cui pure si è parlato oggi durante il dibattito: la formazione, il rapporto tra scuole, università e mondo del lavoro. E' un rapporto ancora labile. Sono ancora due mondi lontani. Io vorrei sapere quanti insegnanti di scuola si domandano cosa fare per i loro alunni e futuri lavoratori. Quanti di loro si pongono questo problema e lavorano su questo tema? Vorrei conoscerli. Però è anche vero che molto si è mosso. Enzo Mattina ha raccontato di iniziative tra la sua agenzia del lavoro Quanta e alcune scuole tecniche e università. Il rappresentante del ministero del Lavoro Ugo Menziani ha raccontato di accordi tra il ministero e l'università per far funzionare la Borsa Lavoro. La stessa iniziativa del professor Marcello Fedele (nella foto qui accanto) dimostra che anche altri si pongono sempre di più questo problema.

E io credo che, al di là di molte chiacchiere, questo sia un punto cruciale su cui devono puntare i più giovani. E se la scuola e l'università non li informa, cercassero di informarsi loro, in tutti i modi, perché questo è fondamentale per la loro vita.

Quanto a me, come ho detto stasera, se attraverso le mie storie di "precari contenti" riuscissi a dare qualche idea, qualche spunto a uno solo di questi ragazzi con l'ansia del futuro, ne sarei felice. Niente, in fondo, di più.

martedì 24 luglio 2007

CONOSCERE LA LEGGE BIAGI


Si parla nuovamente di modifiche alla legge Biagi. Nell'ultimo incontro tra governo e sindacati si sono messi sul tavolo due interventi: 1)un limite al rinnovo dei contratti a termine (per un massimo di 36 mesi) e 2) l'abolizione del lavoro a chiamata, unanimemente riconosciuta forma di lavoro marginale. Per capirci, questo non cambia quasi nulla nel mercato del lavoro o nella vita dei cosiddetti "precari". Si rischia solo di fare aumentare il lavoro nero, dice Michele Tiraboschi, in un intervista sul Messaggero di oggi: ""Si crede che la precarietà derivi dal mercato del lavoro che offre poche opportunità. - dice Tiraboschi - Invece il problema è che l'Italia dovrebbe fare in modo che la scuola produca figure professionali più vicine alle esigenze del mercato. Se il rapporto tra scuola e lavoro è debole, è inevitabile che una volta usciti dal momento della formazione con basi diverse da quelle richieste dal mondo del lavoro vengano a crearsi schiere di precari. La precarietà si batte con percorsi certi di ingresso nel mondo del lavoro""




Voglio segnalare però un'iniziativa meritoria di due amici "ladypiterpan" e "precario a vita?", che sul sito somministrato, hanno iniziato a pubblicare e spiegare la legge Biagi, sempre citata, spesso denigrata, ma pochissimo conosciuta. Un'impresa non da poco, perché le leggi italiane si presentano sempre come un dedalo di oscurità, avvolto in un alone di mistero. Però vale la pena leggerla, questa legge, perché alcune parole sono sorprendentemente chiare, e forse lasceranno a bocca aperta chi la critica senza conoscerla!

Segnalo e raccomando però, per loro e per chiunque fosse interessato, che ciò che viene chiamato "legge Biagi", oltre alla legge 30, comprende anche altre norme, tra le quali un decreto di attuazione. Si può trovare tutto sul sito della fondazione Marco Biagi, a questo link

domenica 13 maggio 2007

STIRATRICI PRECARIE? MAGARI...PER LORO IL LAVORO E' NERO


Ci sono lavoratrici che prendono 356 euro per un mese in fabbrica, a cucire e stirare pantaloni. E c'è chi lavora da casa, cuce scarpe e guadagna un euro e 20 centesimi a paio. In nero. Sono per lo più donne del Sud. Per loro la legge Biagi è un oggetto misterioso: flessibilità, part time, contratti a progetto o a tempo determinato sarebbero un sogno, altro che. Invece hanno esperienza solo di sfruttamento, in un ambiente e in un territorio che per le stesse imprese è una giungla. La loro, sì, è terribile incertezza, precarietà, violazione di diritti. Tutte cose che, come si vede, esistevano ed esistono ancora proprio dove non viene applicata la legge, che la si voglia chiamare legge sulla flessibilità buona, o semplicemente legge del lavoro. Le storie raccontate da Maria Lombardi e il mio commento "Flessibilità contro lavoro nero" li potete leggere sul Messaggero di oggi.
Aggiungerò, forse provocatoriamente, che troppo spesso la precarietà è lamentata da persone che per loro fortuna vivono ben lontane da questo tipo di problemi. (Nella foto "Le stiratrici" di Degas)

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