STUDIARE E LAVORARE ALL'ESTERO
Vent'anni fa, appena laureata in filosofia, tesi in storia moderna e contemporanea, appassionata di antropologia culturale, accarezzai l'idea di andare all'estero: per continuare a studiare, per lavorare. Un fidanzato importante, le amicizie, la pigrizia, tante illusioni, mi trattennero. Fu uno sbaglio. Anche se il lavoro mi ha dato e mi dà delle soddisfazioni, credo che l'Italia non valorizzi abbastanza i propri talenti.
Ora, qualunque giovane laureato intervisti, a qualunque blog mi attacchi, non si sentono altro che esperienze di quelli che dicono addio Italia, non mi meriti. La maggior parte sono testimonianze di persone in gamba, con una buona laurea, che in Italia si sono trovate ad annaspare in un vuoto sconcertante. Quindi hanno fatto le valigie, hanno preso qualche contatto e, spesso, raccontano di porte che si spalancano, di stipendi che aprono il cuore, di una vita felice, di ampie possibilità di crescita professionale. Comunque sono contenti. Io stessa ho conosciuto giovani che in Italia avrebbero, sì, trovato dei lavori, ma che all'estero hanno scoperto un ambiente molto più stimolante e posizioni di maggiore soddisfazione.
Ma quanti sono quelli che vanno a lavorare all'estero? Non è facile stabilirlo. Qualche dato esiste solo per i ricercatori universitari, per i quali si parla da anni di fuga dei cervelli. Che non si inverte mai. Ma chi va nelle aziende private non appare in nessuna statistica. Certo, sono numeri piccoli, saranno alcune migliaia (cosa vuoi che siano di fronte a 2 milioni di lavoratori a tempo determinato). Però è un fenomeno rilevante. E' vero, le cifre dicono che in altri paesi dell'Occidente il numero dei laureati senza lavoro è veramente esiguo. Da noi invece sono quasi troppo qualificati per le aziende. E allora? Con chi prendersela?
Difficile dirlo. E' una buona parte del mercato e del sistema produttivo che, a quanto pare è obsoleto. Solo un maggior numero di laureati, a lungo termine, lo può risollevare. Ma se poi quei laureati non trovano posto, ecco che il circolo non è virtuoso, bensì vizioso...viziosissimo!
Una strada sicura una volta era fare un master in una università straniera e, poi, da lì, cercare delle opportunità. Ma ormai i canali per cercare lavoro all'estero non si contano. Chi è bravo, intraprendente e sa almeno una lingua (pollice verso se non la sa: vada a lavare piatti per sei mesi in un paese anglofono!) ha buona possibilità, almeno stando a quello che si racconta. Non ho mai sentito una storia in negativo, anzi se ci fosse sarebbe probabilmente l'eccezione che conferma la regola.
Ora, qualunque giovane laureato intervisti, a qualunque blog mi attacchi, non si sentono altro che esperienze di quelli che dicono addio Italia, non mi meriti. La maggior parte sono testimonianze di persone in gamba, con una buona laurea, che in Italia si sono trovate ad annaspare in un vuoto sconcertante. Quindi hanno fatto le valigie, hanno preso qualche contatto e, spesso, raccontano di porte che si spalancano, di stipendi che aprono il cuore, di una vita felice, di ampie possibilità di crescita professionale. Comunque sono contenti. Io stessa ho conosciuto giovani che in Italia avrebbero, sì, trovato dei lavori, ma che all'estero hanno scoperto un ambiente molto più stimolante e posizioni di maggiore soddisfazione.
Ma quanti sono quelli che vanno a lavorare all'estero? Non è facile stabilirlo. Qualche dato esiste solo per i ricercatori universitari, per i quali si parla da anni di fuga dei cervelli. Che non si inverte mai. Ma chi va nelle aziende private non appare in nessuna statistica. Certo, sono numeri piccoli, saranno alcune migliaia (cosa vuoi che siano di fronte a 2 milioni di lavoratori a tempo determinato). Però è un fenomeno rilevante. E' vero, le cifre dicono che in altri paesi dell'Occidente il numero dei laureati senza lavoro è veramente esiguo. Da noi invece sono quasi troppo qualificati per le aziende. E allora? Con chi prendersela?
Difficile dirlo. E' una buona parte del mercato e del sistema produttivo che, a quanto pare è obsoleto. Solo un maggior numero di laureati, a lungo termine, lo può risollevare. Ma se poi quei laureati non trovano posto, ecco che il circolo non è virtuoso, bensì vizioso...viziosissimo!
Una strada sicura una volta era fare un master in una università straniera e, poi, da lì, cercare delle opportunità. Ma ormai i canali per cercare lavoro all'estero non si contano. Chi è bravo, intraprendente e sa almeno una lingua (pollice verso se non la sa: vada a lavare piatti per sei mesi in un paese anglofono!) ha buona possibilità, almeno stando a quello che si racconta. Non ho mai sentito una storia in negativo, anzi se ci fosse sarebbe probabilmente l'eccezione che conferma la regola.
5 commenti:
Ciao Angela,
ottimo post davvero. Io credo che il grado di impoverimento di una nazione abbia molto a che fare con l'emigrazione a cui costringe il suo popolo, qualunque sia il motivo che lo spinge. Non si tratta solo di fuga di cervelli, ma anche di persone volenterose che avrebbero fatto solo bene alla nostra economia, senza bisogno di dover sventolare una laurea. E invece sono obbligati a scappare da questa società così immobile. Ogni epoca e ogni paese ha avuto le sue fughe di forze utili, dai moriscos di Spagna agli ebrei di Germania. La nostra (che prosegue da un secolo e oltre) non fa altro che abbassare la nostra capacità di essere competitivi nel mercato interno e, di conseguenza, internazionale. E dubito che, senza una reale rivoluzione di costumi, si possa giungere a una sacrosanta inversione di tendenza. Non trovi? - Arnald
Ciao Angela, sono Meccatronico di JC.
A proposito dell'estero.. è solo da un anno che mi sono "fermato" in Italia:ho lavorato in giro per l'Europa e rientrando in Italia posso dire che è solo peggiorata (per non infierire troppo).
Aziendine medio-piccole stanno per essere assorbite da aziende europee modernamente organizzate... ma in Italia non abbiamo la Bocconi? e la Luiss?
Dove sono gli strateghi di comunicazione, delle nuove tecnologie? Abbiamo un sistema che si regge sul nulla... solo chiacchere e furbizie.
Abito in Veneto e come notizie, sulla nostra stampa locale, trovo sindaci di confine che vogliono riconsegnare la fascia tricolore.
Il sindaco di Cittadella (PD)
vorrebbe emanare leggi a protezione dei residenti mentre il sindaco di Montegrotto Terme consiglia ai suoi abitanti di emigrare per avere il "bonus emigranti"! I cervelli scappano quasi tutti e qua da noi restano solo i "parolai" e pennivendoli.
Dovrò emigrare di nuovo?
ciao Meccatronico
Sono d'accordo con Arnald, davvero un bel post. Che mette il dito in una piaga dolentissima: fuggire per realizzarsi o combattere restanto in Italia?
Perchè là fuori non c'è solo il lavoro. No, ci sono anche i servizi pubblici che funzionano, gli uffici amministrativi con il personale che lavora, i posti negli asili nido...
L'ultima volta che sono andata in Belgio sono rimasta sconvolta: tutti avevano 2-3 figli, buoni lavori, belle case che pagavano la metà di quel che pago io a Milano. E tutti a chiedermi: "Ma alla tua età, perchè non fai un figlio"? E non lo chiedevano, come accade qui in Italia, le signore 50enni un po' malevole, sottintendendo "Guarda che poi invecchiare è un attimo". Lo chiedevano i miei coetanei. Perchè lì è normale avere tutto: un buon lavoro, una vita economica INDIPENDENTE dai genitori, una bella famiglia, figli prima dei trent'anni.
Vai a spiegargli che se ci metto pure il figlio le mie aspirazioni posso prendere una pala e sotterrarle per una decina d'anni o più...
Però io dico che il mio mondo lo voglio cambiare dall'interno. Non è nemmeno giusto che tutti scappino. Qualcuno prima o poi la dovrà migliorare, 'sta benedetta maledetta Italia.
www.repubblicadeglistagisti.blogspot.com
Cara Angela, sono MacLaser di JC.
Trovo il post interessante anche se credo che la fuga verso l'estero sia molto più rilevante di quanto si creda.
Ho lavorato per anni all'estero e ancora oggi collaboro attivamente con società estere, la mia esperienza all'estero ha visto molti italiani che non solo lavoravano nelle aziende straniere, e con livelli occupazionali importanti, ma ho visto un grande trasferimento di competenze e di capacità.
Gli italiani all'estero non sono più, come anni or sono, manovali e operai; sono sempre più spesso dirigenti, funzionari e tecnici; che trasferiscono elevate competenze e capacità nelle imprese straniere, ciò alla lunga poterà ulteriori danni alle imprese italiane.
Come dici anche tu, le aziende italiane hanno paura delle persone qualificate e spesso le scartano, quelle straniere cercano di sfruttarne ogni capacità, di acquisire ogni singola competenza, di appropriarsi di tutto ciò che è possibile da quei cervelli, dalle loro storie e da ogni esperienza.
Ciò che non capisco è perché gli imprenditori italiani hanno la tendenza a mangiare la stagnola e buttare i cioccolato?
A Mosca nei pressi dell'Ambasciata d'Italia ho trovato spesso tecnici, dirigenti, ricercatori e esperti, impegnati in difficili e complessi rinnovi dei permessi e dei documenti; ma la maggior parte oltre a ottime retribuzioni, potevano vantare la direzione o l'organizzazione di interi reparti, se non di interi stabilimenti.
Ciò che è stato una sorpresa è il numero di operatori tecnici italiani che ho conosciuto che lavoravano nei centri di ricerca delle aziende e nei centri per la formazione avanzata (tecnici di elevato profilo).
Forse il vero problema non è solo il numero delle persone, ma anche la qualità elevata ed elevatissima dei profili.
Nell'unico rinnovo di documenti fatto presso l'Ambasciata ero in coda con un numero en superiore al 200 di cittadini italiani che in quel giorno rinnovavano documenti per il loro soggiorno.
Chiudo con una valutazione, nel tuo libro "Precari e Contenti" parli dei precari che in Italia hanno ottenuto risultati positivi, ma non credi che questo articolo ti smentisca!
Le minoranze e le eccezioni non fanno la realtà!
@maclaser
il tuo commento è prezioso, perché racconta esperienze dirette, oltre che una intelligenza della questione...
non smentisce niente perché il punto di partenza del mio libro è che il mercato del lavoro (e non solo quello) in Italia è pessimo, ma non da oggi, o dal 1997 come pensa qualcuno che, giustamente, essendo magari nato negli anni '70 non lo sa, ma è sempre stato pessimo. Ciò detto, l'analisi non contraddice purtroppo queso assunto, quindi non condanno chi se ne va, anzi lo capisco! E' anche vero che in Italia qualche piccolo cambiamento c'è, assolutamente inadeguato, certamente, ma non è deprimendosi che si possono sfruttare le occasioni! Per farla breve: 1)credo che sul piano collettivo andrebbe rivoltata la situazione come un calzino, ma non abolendo la flessibilità, bensì accompagnando "tutta" la società italiana a una maggiore flessibilità positiva;
2) sul piano individuale ogni giovane avrebbe bisogno di essere "accompagnato" per riuscire a sfruttare lel opportunità e a superare le difficoltà. Non che lo possa fare io, ma le storie raccotate nel libro sono un tentativo in questo senso...
:-)
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