martedì 27 ottobre 2009

Donne e economia


"LE DONNE possono salvare l’economia mondiale. Anzi, potrebbero, se gli uomini le lasciassero fare. Secondo uno studio dal titolo ”Le donne vogliono di più” del Boston Consulting Group, citato da Kevin Voigt di Cnn.com, le donne sono la potenza economica che cresce più velocemente nel mondo, nonostante la crisi. Altro che Cina o India. Entro la fine del 2014, stima la Banca Mondiale, il loro reddito personale dovrebbe raggiungere i 18 mila miliardi di dollari, con un incremento di 5 mila miliardi rispetto al reddito attuale. Ma la loro capacità di spesa è ancora superiore, perché sono proprio le donne che spesso decidono cosa e quanto comprare. In Cina le donne sotto i 35 anni sembra che abbiano fatto crescere la spesa, nonostante la crisi, del 15 per cento nei primi nove mesi dell’anno. E entro la fine del 2009, il numero di donne che lavora negli Stati Uniti avrà superato il numero di uomini. Eppure, quelle stesse donne che raggiungono questi risultati, sono ben lontane dall’aver conquistato il potere che ne dovrebbe discendere, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Negli Stati Uniti non solo le donne che guidano una grande azienda sono ancora una minoranza (38 su 400 ”top company”), ma soprattutto ancora guadagnano meno degli uomini: 77 centesimi per ogni dollaro di un uomo. In Italia le donne che lavorano sono appena il 46% del totale, e meno del 5% di chi siede nel Cda di una grande azienda è una donna.Il paradosso a dire il vero non è nuovo. Sono già parecchi anni che gli istituti di ricerca mondiale calcolano di quanto il Pil di un determinato paese o di una regione del mondo potrebbe crescere, se le donne entrassero nel mercato del lavoro e accedessero al management nella stessa misura degli uomini. In Italia si stima che la parità economica delle donne sul mercato del lavoro possa valere almeno 7 punti percentuali di Pil. E esistono studi che rilevano la crescente redditività delle aziende guidate da donne. In Norvegia la legge che impone almeno il 40% di presenze femminili nei Cda delle società quotate è stata osteggiata furiosamente dagli uomini, ma poi si è dimostrata benefica.La cosa più sconcertante, però, è che neanche la crisi mondiale abbia convinto chi ancora detiene il potere economico (e politico), cioè il tipico maschio over 50 (in Italia anche over 60) a valorizzare questa risorsa. Anzi, come rileva la ricerca BCG, nel momento di crisi gli uomini tendono a mettere le donne da parte con la scusa che ”ci sono cose più importanti da fare”. Così, le istituzioni finanziarie e le aziende non si sintonizzano proprio con il loro potenziale miglior cliente, le donne. Un esempio di investimento sulle donne in realtà esiste, ed è nel microcredito. Chi conosce la storia del nobel Muhammad Yunus, sa che proprio le donne nei paesi più poveri sono le persone più affidabili e che lavorano di più per migliorare le condizioni della famiglia e dei bambini. Ed è investendo su di loro che Yunus ha fatto fiorire la sua banca, la Grameen. Tra gli immigrati, poi, sono le donne che mandano le rimesse più consistenti nei paesi di origine. Eppure, perfino nei nostri civilissimi paesi questa lezione ancora non è stata imparata. Le aziende hanno un atteggiamento spesso paternalistico verso le clienti, e le banche in particolare non le prendono molto in considerazione: ”Gli uomini in affari hanno dei mentori, le donne no - dice una rappresentante della Global Banking Alliance for Women, citata da Cnn.com, Teri Cavanaugh - Le donne vogliono avere un rapporto con la loro banca, vogliono informazioni e consigli, ma le banche non sono strutturate in modo adeguato”.E così in tutto il mondo continuano a perdere la loro occasione. "
Questo ho scritto oggi sul Messaggero, riprendendo un articolo su CCC.com. Insieme a questo vi invito a leggere l'articolo scritto da Leonardo Maisano sul Sole 24Ore "Nasce il fondo rosa e punta solo sulle donne", da Londra Pper ora senza link). L'economia e la finanza non possono più fare a meno di una fetta così dinamica della società, ma anche le donne si devono muovere...

lunedì 19 ottobre 2009

Chi non crede nel posto fisso?


Ma che razza di frase è ”Credo nel posto fisso” ? Eppure l’ha pronunciata Giulio Tremonti, ministro intelligente, con l’aria di chi fa una rivelazione epocale.
Ha piantato la sua bandiera su un terreno di battaglia e ora vuole raccogliere i frutti. Ma sono frutti avvelenati, come quelli cercati da chi in passato su questo, posto fisso o flessibilità, ha condotto la sua sporca guerra.

Chi è che messo di fronte alla scelta posto sicuro- posto insicuro, sceglierebbe il secondo? Nessuno in prima persona, se non per paradosso, ovvio.

Ma il punto non è questo. In ogni paese civile è normale, lo è stato per decenni, avere un lavoro. Il lavoro della vita. Più o meno. Ma era anche normale che in alcune circostanze il lavoro non fosse il lavoro della vita, bensì semplicemente un lavoro per sbarcare il lunario. Ma era anche normale voler cambiare, o poter cambiare, migliorare, spostarsi. Tutto ciò è normale.

Mi ricordo che negli anni Ottanta, parlando con un ragazzo americano in Inghilterra, cercavo di spiegargli che in Italia gli studenti universitari non erano soliti fare dei ”lavoretti”, perchè da noi il lavoro era per la vita o non era. Ecco perché molti di noi magari andavano all’estero a lavorare d’estate.

Le cose poi sono cambiate. Negli anni Novanta il lavoro a tempo determinato e poi le collaborazioni sono state regolamentate e sono entrate a far parte ufficialmente del mondo del lavoro (che prima invece contemplava allegramente il lavoro nero come unica alternativa al posto fisso). Si è fornito ai lavoratori e alle imprese un’opportunità in più. Infatti nei successivi dieci anni il numero degli occupati in Italia è aumentato. Ciò nonostante siamo ancora uno dei paesi industrializzati nel quale lavora il numero più basso di persone. Ma questo discorso ci porta lontano.

Cosa è meglio in tempo di crisi? Il posto fisso o il posto flessibile? Che domande. Ma se uno ha perso il lavoro - chiedo- è meglio un posto insicuro o è meglio la disoccupazione?

Ecco, come si vede la realtà è un po’ più complicata di come adesso Tremonti ce la vuole presentare.

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