venerdì 29 febbraio 2008

UN AVVOCATO ITALIANO IN VIETNAM

















Non pretendo che questa storia sia ordinaria. Non è alla portata di tutti essere eccezionali. La storia di Federico Vasoli, che potete leggere qui di seguito, è di quelle che possono galvanizzare o deprimere: qualcuno si rassegnerà al fatto che lui, o lei, non sarà mai così. Ma per tanti altri credo che dimostri che, se non tutto, molto si può fare. Spesso bisogna solo fare un primo passo, aprire una porta. Non sempre basta. E, leggendo, qualcuno dirà che comunque Federico è favorito dal suo ambiente, dalle sue doti naturali, dalla fortuna. Ma anche per chi nasce dotato, la fortuna non basta. A sperperare una fortuna ci vuole un attimo. Io ho incontrato Federico
e ho avuto la sensazione di una grande determinazione. Ma l'ho incontrata anche in molte altre persone. Ecco il suo racconto:

"Sono Federico e faccio l’avvocato a Milano e... in Vietnam!
Qui dico qualcosa del mio lavoro, ma il mio lavoro oggi corrisponde alla mia vita e quindi devo essere un po’ autoreferenziale e parlarvi di me.
Adoro il mondo, ho la fortuna di vivere una vita stupenda e come tutti quanti noi sono un universo pieno di sfaccettature e di (apparenti?) contraddizioni.
Non mi piacciono gli stereotipi quando si descrivono le persone, proprio perché siamo troppo complessi per essere etichettati.
Per questo, scrivere di me è un felice privilegio concessomi da Angela, ma anche una bella impresa, perché, se ho quasi sempre un’opinione su tutto e spesso mi vengono battute fulminee, allo stesso tempo raccontare la mia storia significa affrontare la sfida di condensare con efficacia percorsi, passioni, situazioni contingenti.
Fino a nove anni fa ero un ottimo studente di liceo classico, che mi è piaciuto da morire, e grazie alla mia scuola, il Collegio San Carlo di Milano, e soprattutto ai miei genitori, ho viaggiato parecchio anche negli anni di scuola. Mio padre mi ha trasferito un’inguaribile passione per la storia e per l’internazionalità. Mia madre mi ha donato il suo spirito da guerriero e la sua capacità di risolvere i problemi (almeno ci provo). Detesto le piccinerie, odio i litigi e le perdite di focus dalla visione e dall’obiettivo. Non mi arrabbio quasi mai, ma, come il Pai Mei di Kill Bill, le rare volte che sono inconsolabile divento letale.
Fin qui qualche riga su quello che non mi piace.
Ma penso di sapere anche cosa mi piace. Mi piacciono un sacco di cose. Mi piace viaggiare, conoscere nuove persone, confrontarmi con figure che per me rappresentano degli esempi interessanti (anche se non sempre da seguire), mi piace sentirmi crescere, migliorarmi, andare oltre i rapporti formali. Mi piace quando le arti mi trafiggono il cuore e mi piacciono cose molto terra-terra come le comodità riservate a quei misteriosi e distinti tizi che vengono chiamati executives, come i voli in business-class, l’iPhone e i termini complicati di finanza. Mi piacciono le sfide e le nuove imprese. Mi piace farmi un mazzo così. Mi piacciono gli eroi classici e i grandi leader, ma non i demagoghi. Mi piacciono le contraddizioni armoniche, come una mia elegantissima e classicissima cravatta di lana, regimental... viola e fucsia! A volte contemplo qualcosa che colpisce il mio senso del bello. Può essere un paesaggio, un tratto caratteriale di una persona, il giro di basso in una bella canzone. La mia vita non potrebbe mai essere senza musica. E infatti durante l’università ho anche cantato con artisti abbastanza quotati nel loro ambiente.
Università. Volevo farla in Inghilterra, un po’ per spiccato senso dell’indipendenza, un po’ perché un tipo stravagante come me con gli Inglesi va a braccetto.
È finita che ho studiato alla Bocconi di Milano, dove avevano appena inserito la laurea in giurisprudenza. E mi è andata bene, perché, a fronte di qualche esame e di qualche professore che mi ha davvero ispirato e che mi ha fatto dire intimamente di aver scelto per il meglio, i miei quattro anni in Bocconi rischiavano di essere grigi e bruttarelli come la facciata di via Sarfatti. Così, durante l’università ho scatenato la mia versatilità e ho fatto di tutto: ho studiato qualche lingua, ho viaggiato, mi sono fidanzato (e mi sono pure lasciato, grazie al cielo!), ho cantato, ho partecipato attivissimamente ad associazioni giovanili facendone una più del diavolo. E avevo solo iniziato.
L’ottimo studente aveva scoperto il mondo e aveva vissuto i suoi diciott’anni con un po’ di ritardo.
Avevo anche fatto un pensiero molto semplice: posto che di studenti bravi è pieno il mondo, posto che pure di avvocati lanciatissimi è pieno il pianeta (e non sono nemmeno così amati!), posto che noi italiani sulla carta siamo molto meno competitivi dei nostri colleghi gallonati a Harvard, posto che la vita è una e non va sprecata, non mi è mai interessato rientrare negli schemi, ma piuttosto cercare un modo per differenziarmi e per essere un passo avanti. Le numerose esperienze non sono dunque mai state fini a se stesse, ma sono servite, quasi come un Grand Tour, a formarmi, sempre che un pigraccio come me possa formarsi... Chi mi conosce bene sa che sono iperattivo semplicemente perché se mi fermassi mi stancherei! Poltrire a letto e divorare quello che trovo nel frigo sono tra i miei massimi piaceri!
Insomma, se non mi diverto, non imparo e non lavoro.
Ecco perché quando ho avuto il minimo sentore della grama vita dell’avvocato medio italiano, fatta di pignolerie, burocrazie, sangue avvelenato, realtà locale, me la sono data a gambe!
Prima di laurearmi avevo in mente di mandare un’“application” in qualche gigantesco studio anglo-americano di diritto commerciale e magari di fare un master in America.
Poi, sempre durante l’università, ebbi la chance di lavorare in uno studio legale a Pechino. Mi candidai perché credevo che la Cina fosse sporca e arretrata e che un’esperienza simile avrebbe fatto impressione sui miei potenziali futuri datori di lavoro.
Scoprii che la Cina era abbastanza sporca, ma per nulla arretrata, e soprattutto mi appassionai alla vita che conducevo lì e all’idea di essere abbastanza pionieristico da inventarmi di lavorare nello studio di famiglia per clienti che volevano investire nel gigante asiatico.
Laureatomi, stavo per iniziare la pratica forense in un mega-studio milanese, dove però non mi avrebbero fatto andare a Bruxelles, dove ero stato preso per svolgere parte della pratica nello studio corrispondente nostro. Mi convinsi quindi che altrove sarei stato incatenato, magari con catene d’oro, ma avrei dovuto sacrificare il lungo elenco di cose che mi piacciono. E siccome il lavoro dev’essere un piacere, visto che ci passiamo su un mucchio di tempo, ho preferito prendere tutto quello che mi piace e farlo diventare un lavoro.
Così sono entrato nello studio di famiglia, lo studio legale con coraggio portato avanti dalla mia fortissima mamma, affiancata da colleghi straordinari, che sono davvero parte della mia famiglia.
Senso di sfida: internazionalizzare un piccolo - ma validissimo - studio milanese. Lavorare duro: ho passato subito l’esamone d’avvocato, a Milano, studiando come un matto. Rapporti umani: lavorare con amici fraterni e non con scorbutici colleghi che ti accoltellano alle spalle. Viaggiare: dopo Pechino e Bruxelles, ho aperto un ufficio a Hanoi, cosa volete di più! E così via.
Nel frattempo, ho sviluppato le mie altre aree di attività: ho scritto due libri (uno sulla sentenza Microsoft, l’altro sulla Cina), ho studiato diritto comparato all’Università di Strasburgo, sono stato eletto Rappresentante Distrettuale 2007-2008 del mio Distretto Rotaract (http://www.rotaract2040.org/), la cosa più bella del 2007 insieme alla licenza d’avvocato straniero in Vietnam. Il Rotaract è davvero l’organizzazione più bella del mondo: un programma per giovani dai 18 ai 30 anni, per crescere, divertirsi, fare del bene agli altri, un contenitore di opportunità (cultura, sport, lavoro di squadra, conoscenze, viaggi, ...) e un amplificatore di talenti. Grazie a questa esperienza, ho imparato moltissime cose nuove che ho riproposto nel mio lavoro: ho imparato a parlare in pubblico e ogni tanto mi chiamano a fare qualche piccola conferenza; ho imparato ad organizzare eventi e abbiamo realizzato un seminario sul Vietnam davvero di qualità (http://www.businessinvietnam.net/); ho imparato a confrontarmi con i bilanci, a pianificare i calendari a lavorare in gruppo, ed eccoci aprire lo studio a Hanoi. E si potrebbe continuare.
Oggi, a qualche mese dall’apertura dell’unico studio italiano in Vietnam e a pochi mesi dal momento in cui cesserò il mio gravoso incarico nel Rotaract, posso cominciare a tirare qualche conclusione.
Non tutto va bene, ma gli elementi fondamentali sono solidi: il nostro nome legato all’internazionalizzazione comincia a circolare, viene valorizzata la qualità di uno studio che raccoglie una tradizione familiare in ambito giuridico di oltre quattro secoli, i nostri clienti e i nostri interlocutori sono di qualità sempre maggiore.
Ci aspettano sfide molto dure: dare una struttura sempre più efficiente al nostro studio, ampliare l’organico (e trovare i soldi e soprattutto le persone giuste per farlo!), “farcela” in un’Italia al collasso economico e in un sistema sempre più complesso e competitivo (sempre più regole, l’avvocatura presa di mira, consulenti di dubbio valore che fanno “dumping” dei propri servizi, ...), trovare il tempo e la freschezza mentale per tutto, in un mondo che richiede capacità professionali sempre nuove e aggiornate.
Il mio obiettivo più vicino è di internazionalizzare la nostra clientela. Facciamo parte di un network di studi legali in tutta Europa e dunque il potenziale c’è.
Nel frattempo, stiamo acquisendo nuove competenze e ci stiamo affacciando su nuovi mercati, quali quelli del Golfo e quello londinese, senza perdere di vista l’Italia e la Cina, anche se non sono minimamente tentato dall’idea di essere uno studio grande per dimensioni o numero di sedi nel mondo. Mi interessa solo lavorare con gusto e bene ed essere premiato per i risultati che ottengo.
Terminata l’esperienza rotaractiana, arderò dal desiderio di tornare a studiare approfonditamente il diritto e di mettere in pratica quanto ho imparato in questi anni di attività extra-lavorative.
Il mio focus è e resterà sempre sulla qualità e sul fornire servizi di reale utilità per le imprese, lontano dai litigi, dalle piccolezze, dal cavillare fine a se stesso. Mi piace sentirmi un coach dei miei clienti, offrire loro opportunità, accompagnarle verso il successo. Mi piace affrontare sfide nuove ed essere quindi “costretto” a studiare, ad esplorare, ad essere flessibile.
Ho la fortuna di lavorare per me stesso ed è una vera benedizione. Non escludo di cambiare in futuro: potrei rivendermi altrove, potrei cambiare totalmente area di attività. Ma sicuramente ci metterò lo stesso spirito e lo farò perché mi piacerà."

domenica 24 febbraio 2008

L'ECONOMIA, I BLOG E LA RICERCA DELLA FELICITA'


"Ci sono novità nei media. E ci sono novità nella scienza economica". Poiché ognuno legge i libri a modo proprio, cercando e scoprendo quello che gli serve in quel momento, è da qui che io comincerei a leggere "Economia della Felicità", Feltrinelli, di Luca De Biase, giornalista, e blogger molto attivo e ben più esperto di nuovi media di chi scrive.


E cosa c'entrano questi due fenomeni uno con l'altro? Sono, scrive De Biase, "due aspetti di una grande trasformazione che impone una ricerca di senso...L'economia segnala il bisogno di una rivalutazione dei beni relazionali. E i media si ristrutturano proprio in base alle relazioni tra le persone"(p. 143).


Da questo punto si può partire per un nuovo viaggio, che è anche quello che io sto facendo, nel mondo dei giovani, delle donne e del lavoro. E che ho segnalato già con "Il denaro fa la felicità?", qualche giorno fa.


Naturalmente nel libro di De Biase c'è molto altro, in particolare su Internet e il valore dell'informazione che circola sulla rete, sui blog, eccetera. In fondo la verità è che il blog, per noi giornalisti, è un po' una perdita, in cambio di un guadagno. Si perde un po' quella distanza, quella alta professionalità che abbiamo sempre riversato (o pensato di riversare) nel nostro lavoro, in cambio di un rapporto più diretto con chi ci legge. Io, personalmente, senza rinunciare al mio solito lavoro, investo tempo (rubacchiato, strappato a tutto il resto) anche in questo, proprio perché valuto parecchio questo rapporto. Diciamo che il blog ci fa guadagnare un po' di quelle relazioni umane che in questi anni abbiamo costantemente perso, in rapporto ai nostri lettori, e non solo. Mi sembra un bel punto di partenza su cui riflettere. E presto vi dirò anche che cosa c'entrano i giovani e le donne (oppure ditemelo voi...). E occhio alla storia di John Baffo!

giovedì 21 febbraio 2008

RICERCA, UNA NOTIZIA BUONA E UNA CATTIVA


Ricerca e innovazione, chiavi di volta della crescita. In Italia siamo ultimi in Europa per crescita, e la situazione della ricerca non è delle più rosee. Ma non soltanto per mancanza di fondi (come è ovvio), bensì anche per le procedure burocratiche e inadeguate a premiare il merito con giustizia e velocità. Segnalo sul sito di Gianluca Salvatori la lettera di protesta dei ricercatori-cervelli rientrati dall'estero e l'articolo dello stesso Salvatori (pubblicato anche sul Messaggero di oggi) che spiega l'elaborazione e l'entrata in vigore di un nuovo tipo di contratto, applicato in Trentino agli istituti di ricerca. Speriamo che sia l'inizio di una valanga (in senso buono)

martedì 19 febbraio 2008

TELELAVORO, ORARI FLESSIBILI E "VITA"

AGGIORNATO con una risposta nei commenti

Il vostro "orario" di lavoro si è dilatato in modo incontrollabile e spesso anche non quantificabile? Vi sorprendete a pensare che quello che fate in ufficio a volte potrebbe essere fatto anche da casa? Vi segnalo un articolo molto interessante sull'ultimo bollettino Adapt della Fondazione Marco Biagi: "Alcune riflessioni sulla sperimentazione del telelavoro in Telecom Italia: l'accordo sindacale del 26 luglio 2007" di Antonio Cocozza.




Mentre il telelavoro, così come lo si pensava qualche anno fa, non si è mai diffuso, c'è stata, si sottolinea nell'articolo,"una significativa diffusione di un lavoro in rete al di fuori dei confini tradizionali dell'ufficio stesso e ben oltre il normale orario di lavoro". E questo è esattamente quello che capita sempre più spesso.


L'accordo sindacale cui si fa riferimento è per ora sperimentale e riguarda un ristretto numero di lavoratori, la cui caratteristica è un alto grado di autonomia.. "Non siamo di fronte a una semplice delocalizzazione di attività ripetitive o alla necessità di far fronte a situazioni difensive - sottolinea Cocozza - si tratta della regolazione di un telelavoro fondato su modelli organizzativi basati sulla conoscenza, sull'autonomia professionale e sulla responsabilità del risultato".. In pratica, il lavoratore potrà fare da casa propria un percentuale del'orario di lavoro e della quantità di lavoro stesso, senza per questo perdere il contatto con l'ufficio e con i colleghi, dove deve passare almeno una parte delle ore settimanali. C'è flessibilità nell'orario, all'interno di una fascia oraria 8-20, e soprattutto viene sottolineata l'importanza del risultato. Unica pecca importante, mi sembra di capire, la normativa ancora rigida e difficile da rispettare per quanto riguarda la "postazione" di lavoro in casa, visto che nelle case italiane è difficile trovare spazi abbastanza ampi da rispondere a normative pensate per gli uffici.


Importante, credo, sottolineare l'effetto positivo che una novità del genere può avere sull'equilibrio lavoro-vita familiare (o meglio privata, che è lo stesso), quel work life balance, al quale all'estero si comincia a pensare sempre più spesso. Non vorrei dover sottolineare che questo farebbe bene anche al lavoro delle donne...e non lo vorrei fare perché credo che ormai uomini e donne abbiano tutti l'esigenza di equilibrare vita e lavoro. Perciò mi sembra un'esperienza da segnalare e tenere d'occhio.

domenica 17 febbraio 2008

FELICITA' E LAVORO/2 LA FLESSIBILITA'



Riprendo il tema del lavoro e della felicità, ma prima voglio ringraziare quelli che lo hanno commentato. Credo di aver toccato un tasto molto sensibile e che mi sta molto a cuore. Siamo in molti a essere soffocati dal lavoro e forse anche dal pensiero del lavoro.
Quindi, ricapitolando, nel libro di Leonardo Becchetti "Il denaro fa la felicità?" si parla di "un effetto indiretto negativo del reddito sulla felicità". Ciò avviene perché l'aumento del reddito ha "un impatto negativo sul tempo speso in beni relazionali, il quale riduce a sua volta l'effetto positivo di questi [cioè del poco tempo speso in relazioni personali] sulla felicità. In parole povere: in Occidente guadagniamo di più perché lavoriamo di più, ma proprio per questo non abbiamo tempo per noi stessi e per gli altri. E il cerchio è chiuso.
L'altro tema che vorrei tirare fuori da questo libro ricco di spunti, è quello del rapporto tra felicità e lavoro. Si parte dalla constatazione che "nel vecchio sistema taylorista...il lavoro materiale e individuale era particolarmente spersonalizzante penoso...". Invece "nel mondo della flessibilità e della continua innovaziobne di processi e di prodotti il lavoro diventa certamente più creativo, ma richiede anche uno sforzo intellettuale di gran lunga superiore, unito a una capacità di lavoro in team...Nel vecchio modello non era necessario per l'impresa conquistare mente e cuore del lavoratore...Nel nuovo modello invece solo una forte motivazione intrinseca può garantire quel surplus di applicazione e di sforzo utili a far scaturire l'idea innovativa e a garantire all'impresa il salto di qualità e di produttività!. Quindi, sostiene Becchetti, le imprese hanno ora "l'esigenza di conciliare felicità e produttività (ovvero di conquistare il cuore e la mente dei dipendenti). (p. 59). Non sempre, va detto, ci riescono.
C'è poi in questo libro un'importante paragrafo sul rapporto tra felicità e globalizzazione del lavoro (pp. 61-62 e sgg). In un periodo storico in cui l'innovazione e la flessibilità offrono le condizioni per un lavoro più "felice", perché più basato sulla creatività e meno sulla ripetitività dell'organizzazione del lavoro taylorista, paradossalmente, la globalizzazione mette a rischio proprio questa possibilità. La globalizzazione sembra rendere certi lavoratori più infelici. Mentre alcuni, pochi, i cosiddetti "talenti" diventano superstar, più pagati e coccolati dalle imprese, la necessità di competere con mercati del lavoro molto più flessibili, dove il costo del lavoro è notevolmente più basso, mette a rischio le tutele e la stabilità dei lavoratori non specializzati dei Paesi più industrializzati, riducendo la loro felicità sul lavoro" (p. 61). E questo dà conto della contraddizione insanabile tra una flessibilità "buona", ricca di opportunità, e la sensazione di nuove e più forti costrizioni che si fa strada tra tanti lavoratori contemporanei, specie se giovani.

giovedì 14 febbraio 2008

FANTASMI E STRESSATI ALLA SCRIVANIA


Avevo pronto il secondo post sul lavoro e la felicità, ma soprassiedo un momento, per segnalare un articolo uscito ieri su Job 24, inserto lavoro del Sole 24, firmato da Walter Passerini: "Fantasmi d'ufficio coperti dal silenzio". che comincia già in modo sorprendente: "più si sale, meno si lavora". Devo dire che ho avuto tutta la vita la sensazione opposta, anche se ho incontrato tanta gente che diceva quanto avrebbe voluto migliorare, con le responsabilità, anche la qualità del lavoro, e avere più tempo per un'attività, certo, poco popolare ma molto importante, pensare. La tesi comunque è tratta da un libro uscito in inglese "The living dead", quindi va presa in considerazione.
In realtà, mi sembra di capire che secondo le statistiche in Usa e Gran Bretagna, nelle aziende si annida un 20% di lavoratori "attivamente disimpegnato", in parole povere fannulloni, che non sono quindi solo negli uffici pubblici. Credo che chiunque abbia vissuto in un'azienda possa confermare. E questo è certo uno dei grandi problemi, legati perfino al discorso della flessibilità (in Italia), visto che gli inamovibili fannulloni, rendono tutto più difficile per i flessibili senza garanzie. Anche nel libro si dice però che questo vale soprattutto per le grandi aziende, dove ovviamente è più facile imboscarsi. E comunque sapere che questo avviene in tutto il mondo dà da pensare.
Che però questo riguardi chi ha fatto carriera e ha dei posti di responsabilità, o è giovane e sta cominciando, mi sembra piuttosto difficile. Purtroppo vedo invece gente che lavora ormai senza orario, salta i pasti, si porta il lavoro a casa, perde di vista amici e parenti, e quando incontra se stesso davanti a uno specchio si trova cambiato. Sbaglio io? O sono due facce di una stessa medaglia, per cui qualcuno fa il lavoro per due?

lunedì 11 febbraio 2008

IL TEMPO, IL DENARO E LA FELICITA'





Era da un po' che volevo parlare di questo libro, perché tratta di un tema che ci riguarda tutti e che mi appassiona da sempre: Il denaro fa la felicità? di Leonardo Becchetti, Editori Laterza, 2007, 145 pagine, 10 euro. La mia risposta alla domanda è sempre stata no, il denaro non fa la felicità, e ne sono tanto più certa quando vado in bici in mezzo ad automobili lucidissime, o quando il mio sguardo si posa su un certo ragazzo arruffato, in mezzo a troppi incravattati, abbottonati, gessati, scarpe lucidate...E' pur vero che, come diceva quello (forse era Woody Allen), se il denaro non fa la felicità, "figuratevi la miseria!". Insomma, la risposta non è così semplice, e il libretto che vi consiglio analizza la questione dal punto di vista dell'economia delle nazioni, nella miglior tradizione dell'economia politica degli ultimi due secoli. Leggendolo scoprirete come è possibile che, nella classifica dei paesi più felici del mondo, prima sia la Nigeria e che l'Italia si piazzi solo al 50° posto, precedendo di poco la Grecia, la Turchia e tutto un folto gruppo di Paesi dell'Est europeo, che evidentemente si sentono piuttosto giù. Ma che non si dica che è una questione di reddito! E la lettura di questo libro lo spiega .
In particolare, però, ci sono due temi, apparentemente marginali, che mi hanno particolarmente interessato in questo libro. Uno è quello del rapporto tra felicità e lavoro, e fin qui siamo anzi nell'ovvio. L'altro è "il rapporto tra crescita del reddito e costo del tempo". Comincerò da qui.
"Il tempo sta diventando un bene sempre più scarso" (p. 23) Ne segue che i cittadini dei paesi industrializzati sono sempre più ricchi di denaro ma, apparentemente "sempre più poveri di tempo". Come è possibile, visto che la giornata è fatta sempre di 24 ore, come cento anni fa, e anzi oggi disponiamo di molti strumenti che ci aiutano a fare le cose in meno tempo? Il problema dice Becchetti è che "non è il tempo disponibile ad essersi ridotto, ma il suo costo ad essere aumentato vertiginosamente". per cui noi dovremmo più correttamente dire non che non abbiamo tempo, ma che "il nostro tempo costa moltissimo" (p.24). Ma perché, quanto vale un'ora di tempo oggi, rispetto a quento valeva prima? Calcoliamo quanto vale un'ora di lavoro cui rinunciamo per quell'ora di tempo libero:"L'aumento costante della produttività nei paesi industrializzati ha fatto salire alle stelle il costo del tempo libero" (p. 25). Tuttavia Becchetti nota anche che, grazie alla tecnologia, sono aumentate le possibilità di svago, si sono ridotte le incombenze domestiche grazie agli elettrodomestici e all'industria alimentare, ma forse sono aumentati i tempi di percorrenza (ma su questo avrei dei dubbi). Se ne conclude un rapporto difficile tra tempo e relazioni affettive, ma le conclusioni mi sembrano molto lontane dal punto della questione, anche se è interessante sottolineare che se "il tempo è denaro", come diceva Benjamin Franklin (e anche Paperon de' Paperoni), "il tasso di cambio tra le due grandezze è profondamente mutato e di questi tempi "il denaro è molto meno caro del tempo". Ma il motivo, lo devo ripetere, qui non è chiaro per nulla. Va aggiunto che nella classifica dei paesi più felici troviamo in cima alla classifica i paesi nei quali si spende più tempo nel coltivare le relazioni personali (p. 29). Purtroppo, in Occidente, per questo non c'è tempo!. E qui mi fermo, ringraziandovi per la pazienza. Nel prossimo post vi dirò cosa dice il libro su lavoro e felicità.

mercoledì 6 febbraio 2008

STORIA DI CARMINE, MUSICISTA E VIAGGIATORE


Questa è la storia di un ragazzo che ha fatto della musica la sua vita, ma che non si sente arrivato: il suo segreto è essere sempre in viaggio! Credo che tanti possano ispirarsi o immedesimarsi in lui. Per chi vuole saperne di più, può andare sul sito di Carmine , sul suo blog diario-il viaggiatore e sul suo spazio su myspace.



"Quando mi stato proposto da Angela di scrivere qualcosa della mia vita lavorativa, non ho esitato e subito mi son messo davanti al computer per scrivere qualcosa. Allora si comincia! Sono nato ventinove anni fa in una piccola cittadina della provincia di Taranto, Grottaglie, città di santi, poeti e artisti, dove il sole d’agosto riscalda i piatti ornati dei maestri ceramisti, e tutt’intorno le campagne piene di alberi d’ulivo e vigneti. E’ la semplice storia di un ragazzo normale che ama due cose: la buona compagnia e la musica. Sì proprio la musica: un intenso amore perduto tra le note, le chiavi e il pentagramma.
Ho iniziato a suonare ad orecchio all’età di sette anni, frequentavo la seconda o la terza elementare non ricordo, ma ho in mente il momento in cui toccavo i tasti bianchi e neri del pianoforte troppo duri per le mie piccole mani, ma alla fine riuscii a suonare la melodia dell’allora pubblicità della pasta Barilla (poi scoprii che era un brano del grande musicista greco Vangelis!!!). Successivamente la musica mi porta a conoscere un nuovo strumento per me poco conosciuto: il violino. Me ne innamorai, suonavo ore e ore per riuscire a ricavare una sola nota fatta bene ed intonata.
Durante il periodo della scuola superiore (frequentavo l’istituto statale d’arte di Grottaglie, indirizzo grafico pubblicitario) contemporaneamente nel pomeriggio andavo al liceo musicale a Taranto per imparare a suonare il violino. Due scuole erano abbastanza pesanti da frequentare, ma quando c’è la voglia imparare e l’amore per la musica tutto passa in secondo piano. Sono stato a Taranto cinque anni fino a che non mi chiamarono per il servizio militare, e cosi che all’età di diciannove anni con lo zaino in spalla partii per Udine in esercito. Un anno bello, ma secondo me inutile!!! Al mio ritorno in “patria” avevo voglia di continuare a suonare. Trovai un lavoro da mio zio che possiede una ditta di impianti elettrici. Sono stato a lavorare con lui circa sette mesi e prendevo dalle 400 alle 500 mila lire al mese.
Quei soldi mi servivano per continuare la mia passione, e il mio vero obbiettivo: riuscire a diplomarmi in musica. Contemporaneamente al lavoro facevo lezioni private a Lecce da un bravissimo maestro di viola e in cinque anni presi “laurea in I° livello in viola”. Tramite il mio maestro sono riuscito a suonare in varie associazioni orchestrali, soprattutto a Lecce e provincia, ma seguivo altre direzioni artistiche. Avevo scoperto di avere doti compositive non indifferenti, e avvalendomi dell’esperienza di alcuni amici musicisti misi su un gruppo musicale, entrammo in studio di registrazione e incisi alcune mie canzoni cantate da me. Il risultato non era male. Mi convinsi a partecipare a dei concorsi musicale per cantautori, e partecipai al concorso voci nuove – festival degli sconosciuti di Ariccia sotto la direzione di Teddy Reno che ascoltando i miei brani dava parere abbastanza favorevole, ma bocciava la mia voce, dicendo che era poco curata. Il mio interesse non era quello di fare il cantante, bensì farmi conoscere come autore.
E cosi, dopo altri concorsi, decisi di trasferirmi a Roma. Con i soldi guadagnati da serate come musicista in locali e suonando in orchestra, mi recai nella città eterna esclusivamente per dedicarmi alla mia attività di musicista. E cosi la mattina mi alzavo presto per girare gli studi di registrazione e le varie associazioni per lasciare il mio curriculum: a piedi avrò girato tutta Roma, dai Parioli alla Garbatella alla via Nomentana fino alla Città del Vaticano. Sono stato un mese a Roma, senza nessun risultato, ma con la voglia di continuare a seguire imperterrito la strada della musica. Ritornando al mio paesello ho continuato a scrivere musica e a frequentare corsi di perfezionamento musicale oltre a suonare in orchestra per guadagnare un po’ di soldi e pagare i corsi. Il mio amore per la musica mi porta a confrontarmi con le sfide: decisi di incidere un cd con le mie forze!!! Un anno di lavoro a scrivere le musiche solo nella villa dei miei genitori al mare, i testi infine gli arrangiamenti, la scelta dello studio di registrazione e in tre mesi il master del cd era già pronto: nove canzoni scritte col cuore. Tutto il mio sudore e le mie ricchezze sono andate via per la promozione del mio cd che ho chiamato “Il viaggio”.
Ora un’altra sfida: riuscire a far conoscere la mia musica a tutte le persone possibili. Ho creato un sito dove scrivere la mia biografia e inserire le mie canzoni. Poi ho iniziato a scrivere su un blog le mie sensazioni e le notizie del mio cd, in modo da fari un po’ di pubblicità. Devo dire che ho trovato un po’ di difficoltà nel promuovermi in questo modo in quanto penso che un esordiente come me ha bisogno di visibilità, e per me la cosa migliore per promuoversi è la “forza globale” di internet. Mi definisco un viaggiatore: si un viaggiatore che percorre la sua strada attraverso la musica. So già che non avrò un posto fisso con il mondo delle sette note, sarò un “precario orchestrale”, in viaggio per portare la mia musica in posti nuovi e pieni di fascino. Il viaggiatore parte e non sa dove arriva; percorre le sue strade senza sapere di preciso dove approderà. Più spesso però è uno che si incammina verso una meta ben precisa, un posto che desidera davvero raggiungere. Il Viaggiatore, quindi, non è sempre l'uomo dei luoghi precari e delle destinazioni incerte, delle partenze e degli arrivi senza ragioni apparenti; delle soste prolungate là dove lo porta il caso…Il Viaggiatore può essere un sognatore che si dirige lungo sentieri misteriosi o forse uno che si illude di trovare la sua isola sconosciuta, sicuramente è un osservatore acuto ed instancabile della complessità del vivere.

Carmine Fanigliulo "

domenica 3 febbraio 2008

IMPARIAMO A CONVIVERE CON LA COMPLESSITA'



Parlerò di un libro un po' strano, un po' eccentrico rispetto ai miei temi (ammesso che esistano), ma nel quale ricorre spesso la parola e il concetto di flessibilità. Poiché nella testata di questo blog si parla proprio di come sopravvivere nella flessibilità e grazie ad essa, non posso sottrarmi.




Si tratta di "Viaggio nella complessità" di Alberto F. De Toni e Luca Comello, edito da Marsilio. Il titolo è intrigante. Che tutto sia complesso è un fatto con cui quotidianamente ci scontriamo...che ci sia una "complessità" in quanto tale lo sospettavamo da tempo, ma che ci si potesse fare un viaggio guidato, è sicuramente meno scontato. E ne vale la pena.




Il testo passa dalla meccanica quantistica, alla teoria del caos, dalla flessibilità nel lavoro, a Borges e alla filosofia cinese. Tutti questi "mondi" servono a descrivere quelle organizzazioni complesse nelle quali tutti noi siamo immersi, dal sistema climatico alla rete internet, per non parlare della "vita" stessa. Ma soprattutto sembrebbe che possano servire al manager innovativo. De Toni e Comello, gli autori, partono con una corsa veloce nella storia della scienza, che va dalle teorie di Newton alla celebre storia (citata anche in Jurassic Park) del battito d'ali di una farfalla a New York, che può scatenare un tornado in Cina. E finiscono con una ancora più veloce incursione nella filosofia occidentale, a confronto con quella cinese. Particolarmente intrigante, però, è la parte sul management e sulle organizzazioni complesse, sempre "sull'orlo del caos": è proprio grazie a questa loro condizione che sono inclini a gestire innovazione e competitività. Visto che poi un po' di ordine serve sempre, gli autori ci spiegano i sette principi del management della complessità, e le tre regole delle organizzazioni complesse. E, come avevo anticipato, citano spesso la flessibilità come fattore di crescita, come capacità di cogliere le occasioni e di assecondare le trasformazioni della realtà.




Certo, visto che il libro è scritto da un professore universitario ma anche da un manager della Illycaffè di Trieste (un'azienda che per sua fortuna è messa tutti i giorni alla prova del mercato, grande "esaminatore" delle nostre vite e delle nostre idee) qualche esempio ci sarebbe stato bene, e avrebbe aiutato il lettore. Qualcuno, forse, avrebbe desiderato anche qualche "storia" che aiutasse i profani o agli adepti a capire un po' più in concreto come procedere. Ma la conclusione del libro è chiara: "Accettare la sfida della complessità significa soprattutto non precludersi alcuna direzione: i passi a volte possono essere incerti e il cammino si fa andando", raccomandano gli autori. Letterariamente parlando, il consiglio migliore, per chi è in grado di decifrarlo, è quello che si ispira a Borges: quando trovi un bivio, imboccalo. Sarebbe bello che qualcuno di voi raccontasse tutte le volte che lo ha fatto.

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