mercoledì 2 maggio 2007

ETICA DEL TEMPO LIBERO CONTRO ETICA DEL LAVORO

Ci sono vari temi che premono in questa settimana del primo maggio, in cui avrei voluto scrivere parecchio, ma sono stata bloccata da difficoltà tecniche di collegamento a Internet. Due temi sopra tutto: uno, le donne; due, l'etica del lavoro.Comincerò da quest'ultimo, stimolata anche da un articolo di Paolo Pombeni sul Messaggero del 1° maggio, dal titolo "La voglia di faticare, l'orgoglio e l'etica del lavoro".
Negli ultimi anni molte cose si sono modificate nel mondo del lavoro, non sempre in peggio. Si potrebbe dire, veramente, che sono mancati miglioramenti decisivi, soprattutto in Italia: la qualità del lavoro è ancora bassa, i laureati sono pochi e hanno perfino difficoltà a trovare occupazioni all'altezza della loro formazione e delle loro aspettative, il mercato è poco trasparente e ci sono scarsi canali di collegamento tra formazione e aziende. Tuttavia, qualche passo avanti c'è stato e, se si confronta la situazione attuale con quella degli ultimi decenni, non si può certo dire che si stava meglio prima.
Qualcuno sostiene che dieci anni fa fosse facile trovare un lavoro, e che lavoro: stabile e di alto livello. Nente di più falso. La disoccupazione giovanile e la disoccupazione intellettuale si sono manifestate drammaticamente alla fine degli anni '70 e per una ventina d'anni non è mai migliorato niente, soprattutto nel Meridione d'Italia. Le prime legioni di diplomati e laureati, che allora si affacciavano trionfalmente al mondo del lavoro (e che pensavano di avere sconfitto la scuola e l'università di élite degli anni '60) negli anni '80 diedero una bella musata. Per loro non c'era lavoro, e non c'erano neanche lavori temporanei, non esistevano gli stage, non avevano ancora preso piede le specializzazioni che ti accompagnano verso qualche esperienza temporanea. Però esisteva già, come adesso, il lavoro nero, per il quale eravamo famigerati in tutta Europa. I giovani si lamentavano, protestavano, lottavano. La loro stella polare erano le lotte operaie. Gli economisti parlavano un giorno sì e l'altro pure di pieno impiego come obiettivo irrinunciabile, ma era come parlare della terra di Utopia. E intanto tra i giovani la disoccupazione era oltre il 30%. Nel totale della popolazione era oltre l'11%.
C'era comunque ancora l'etica del lavoro, che impregnava la cultura socialista così come quella capitalista, che era prevista nella nostra Costituzione e che resisteva anche ai miti dell'immaginazione al potere del '68.
Adesso il lamento, la protesta, la sensazione di disagio si è fatta più forte. Si è coniato il termine "precario", che da aggettivo è diventato sostantivo e poi descrizione di una condizione esistenziale, che va ben oltre la realtà della flessibilità nell'epoca della globalizzazione, e della fine dell'organizzazione del lavoro fordista. Eppure tra stage, tirocinii, uffici di placement, uffici di lavoro temporaneo, esperienze all'estero, sono tanti quelli che trovano qualcosa in questo mercato del lavoro. Magari non è il posto dei loro sogni, non è il lavoro perfetto e all'altezza della loro preparazione. E' giusto che una generazione non si accontenti e che si batta, anche più di come sta facendo, per migliorare la propria condizione. Ma c'è qualcosa di più e di diverso, su cui mi sono arrovellata per mesi.
COME NASCE L'IDENTITA' PERSONALE
Perché la qualità delle proteste ha un sapore così diverso? Perché, perfino le parole d'ordine del sindacato e dei partiti di estrema sinistra suonano così strani? Il motivo è più semplice e più complesso di quanto siamo disposti ad accettare, e che risponde alla domanda di Paolo Pombeni: esiste ancora l'etica del lavoro? No, la verità, è che nella nostra società , non solo italiana, ma in tutto l'Occidente, l'etica emergente non è più quella del lavoro, ma quella del tempo libero. E il lavoro è solo un mezzo per realizzare l'obiettivo primario: l'utilizzo del tempo libero.
Sottolineo che questo non è un giudizio di valore. Anzi: è necessario partire da una comprensione della realtà, per riuscire a dare risposte alla proteste e alle incomprensioni. Molti di noi, praticamente tutti quelli che hanno più di 40-45 anni, partono da un'etica dominante diversa da quella che si è diffusa tra gli attuali giovani, tra i 15 e i 30-35 anni. Ogni generazione ha un proprio modello emergente, ed è giusto che sia così. La ma etica, e quella di chi governa il paese e le aziende è ancora un'etica del lavoro. Come dice Pombeni, è ancora l'etica della fatica, dello sforzo. Aggiungerei: un'etica in cui la mia identità si definisce attraverso il lavoro.
IL LAVORO COME MEZZO, NON COME FINE
La generazione Y nata dopo il 1979, e ancora di più forse i loro fratelli minori, non capiscono questa logica, non la condividono. La loro è un'etica diversa, per la quale ancora non si è trovata la definizione adatta. Forse etica del sé, forse etica del tempo libero. Quello che è certo, è che sono pochi quelli che definiscono se stessi in funzione del lavoro che svolgono o che vogliono raggiungere. Qui il discorso si farebbe lungo, e meriterà di essere ripreso. Ma io sospetto che il punto sia questo. Di fronte alle difficoltà del mercato del lavoro, la reazione di chi sta sviluppando una cultura del tempo libero, non è quella di aggrapparsi a qualunque appiglio per andare avanti, felice comunque di trovare delle opportunità. No, la reazione è di stizza: rabbia, di fronte a un sistema che intralcia il proprio desiderio di espansione personale, che chiede troppo prima di dare qualcosa, che procede ciecamente su una logica economicistica, rispetto a persone che non valutano affatto le leggi dell'economia. Persone che hanno vissuto la propria infanzia e gioventù nella inconscia convinzione che l'economia, la società, fossero finalmente piegate alle esigenze dell'individuo. Ripeto, e ripeterò ancora, che qui non c'è nessun giudizio di valore. Sto solo cercando di capire.
La differenza tra etica del lavoro ed etica del tempo libero ci può dare una chiave. Non è detto che la nostra etica della fatica sia per forza migliore. Chi è cresciuto con l'etica del lavoro non riesce a capire, letteralmente, i problemi di chi ne è fuori. Temo però che chi vive nell'etica del tempo libero non si renda conto, in realtà, di essere spesso "agito", manipolato, sfruttato, più di quanto avrebbe mai immaginato, da una società inevitabilmente e profondamente, almeno per ora, basata sulle forze dell'economia.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

La situazione mi sembra abbastanza chiara, provo a riassumerla nei seguenti 10 punti:

1) Ci sono in Italia molti piu’ ingegneri di quanto le aziende e la pubblica amministrazione possano assorbire

2) Le universita’, per attirare studenti e non chiudere i battenti, raccontano mentendo, che servono sempre piu’ ingegneri

3) La riforma 3+2 ha reso la laurea in ingegneria molto semplice da conseguire, permettendo a tutti gli studenti di divenire ingegneri ma svilendone il titolo

4) Le aziende ci marciano sopra, dato che l’offerta di ingegneri supera di gran lunga la domanda di posti disponibili, e offrono contratti con stipendi ridicoli (1000 €/mese, se va bene) in posizioni di basso/bassissimo livello

5) Si profila una lotta tra poveri per un tozzo di pane: ingegneri contro periti contro operai specializzati

6) La tipologia di impresa tipica italiana e’ a conduzione familiare, con il titolare che e’ al massimo diplomato e quindi non puo’ capire il valore aggiunto portato da un ingegnere

7) La spesa in R&D in Italia e’ la meta della media europea, quindi tecnologie avanzate, per cui servirebbero ingegneri, non sono sviluppate adeguatamente. In Italia le tecnologie vengono aggregate, non sviluppate

8) Le cose non cambieranno molto presto, questo e’ il trend stabile per i prossimi anni

9) Gli ingegneri disoccupati non possono permettersi di aspettare anni. Restano loro due possibilita’: rinunciare in tutto o in parte alle loro ambizioni e disputarsi stipendi irrisori con periti e operai oppure emigrare all’ estero.

10) Le possibilita’ offerte dalle aziende estere, specialmente in R&D, potrebbero essere la soluzione per tutti quegli ingegneri che vogliono, giustamente, fare il lavoro per cui hanno studiato

Francesco Filippetti ha detto...

Gent.ma Sig.ra Angela,
lei contrappone l'etica del tempo libero - di cui sarebbero tetragoni le nuove generazioni - a quella del lavoro e della "fatica" - di cui sarebbero depositari e testimoni viventi le generazioni over 40 -. Questa contapposizione è la chiave di lettura da Lei adottata per interpretare il fenomeno del precariato (che forse sarebbe meglio definire precarizzazione). A dicembre avrò 40 anni e, personalmente, mi colloco tra le due generazioni da Lei ipotizzate. Mi permetta di dirLe che, seppure fornita di una qualche fondatezza, la sua schematica contrapposizione non è rispondente alla realtà, nè, a mio parere, serve granchè a spiegare la disoccupazione o sottoccupazione giovanile. Vi sono nel pubblico e nel privato decine e decine di fannulloni incapaci ultraquarantenni come altrettanti disperati stakanovisti meno che trentenni (che sperano magari col superlavoro di farsi prorogare i contratti co.pro. o a tempo determinato). Il mercato del lavoro non funziona per nulla semplicemente perchè in Italia non esiste il mercato ma solo un sistema che garantisce chi ha gli amici o i parenti giusti al posto giusto. Come facciamo a parlare di mercato se la stragrande maggioranza delle aziende assume su basi del tutto lontane dal potenziale personale e dal merito? L'economia di cui Lei parla non è certo quella di mercato. E' l'economia di poche oligarchie e lobbystiche e caste familistiche che hanno ormai asservito tutto: politica, morale e religione. Il liberismo di mercato è realtà estranea all'Italia. Per questo, la flessibilità come palestra delle capacità e delle professionalità si trasforma nella precarizzazione a vita per i molti poveri fessi senza referenti. Temo che la sua analisi sia sociologismo privo di qualsiasi riscontro nella realtà quotidiana della maggioranza dei giovani. Cordiali saluti.

Anonimo ha detto...

Sono un giovane 25 enne. Era tanto tempo che non leggevo un commento così acuto sulla nostra generazione e sul suo rapporto con il lavoro. Personalmente, però, non penso sia tanto una questione di tempo libero, quanto di liberazione dalla mistica che circonda il lavoro. I vari Corona, i soldi facili che vediamo intorno a noi, i "nuovi imprenditori" che da un giorno all' altro si arricchiscono con magliette e operazioni finanziarie, hanno fatto capire non a tutti, ma ad una maggioranza di noi, che il lavoro altro non è che un mezzo (tra i tanti disponibili) per avere il "cash", simbolo e modo di ottenere gran parte delle cose belle da fare nella nostra vita. Perchè come ha detto qualcuno "i soldi sono belli perchè sono il contrario della realtà, della fatica e della necessità". Intendiamoci, molti di noi, me compreso, hanno passioni, vogliono realizzare qualcosa di buono nel mondo, hanno ideali; ma li "separano" dal lavoro dipendente. Nel mio caso, anche se sono dipendente in un' azienda, penso di essere un imprenditore, di me stesso. Non ho la minima fedeltà, ne attaccamento al lavoro in se. Finchè mi dà cash o opportunità di crescita mi va bene, appena dovesse diventare noioso o ripetitivo cambierei senza nessuna remora. Azienda e lavoro, perchè come hai detto giustamente, per noi è un mezzo e non un fine. E' la consapevolezza, l' illuminismo giunto a maturazione, e a mio avviso non potrà che fare del bene all' umanità.

angela padrone ha detto...

rispondo con un po' di ritardo ai commenti a questo post. sono stata soprattutto impressionata da quello che scrive Davide. Io non penso che la precarietà sia spiegata dal fatto che si diffonde sempre di più l'etica del tempo libero. Però le due cose sono in qualche modo legate: nella percezione che i singoli hanno del mondo del lavoro e nella loro disponibilità a "dare" nel lavoro. Il tema meriterebbe almeno un post a sé e non è per niente semplice. Per le dimensioni del problema e tutte le sue sfaccettature servirebbe un nuovo libro!
Comunque, io non faccio una critica a chi ha questo tipo di atteggiamento, semplicemente non mi appartiene. Io ritengo di "essere", in una certa misura, il mio lavoro (o i miei lavori, visto che cominciano a essere parecchi) e credo che non si conosce veramente qualcuno finché non lo si vede lavorare...Davide invece ha una visione opposta e come lui tanti della sua generazione. Un bel cambiamento, in 20 anni, no? Spero di tornarci su presto

Anonimo ha detto...

Non ho detto che la precarietà è causata dall' etica del tempo libero, ma esattamente quello che dici tu: la "precarietà" (come la chiami tu), ed il mondo intorno a noi ci spingono a pensare il lavoro come una parte di noi non più dell' amore, del wellness e del divertimento. Per alcuni di noi (pochi)è un pò più importante, per alcuni (molti) è solo un mezzo, per altri è ancora un fine ed una cosa in cui riconoscersi, ma non LA COSA...

Gianluca ha detto...

Spero faccia piacere a tutti se mi permetto di segnalare un iniziativa veramente interessante dedicata al mondo della Sicurezza sul Lavoro, della Tutela Ambientale, della Qualità, della Privacy e dell’Etica.
Visitate il sito www.si-web.it e fatemi sapere le vs. osservazioni.

Grazie

Gianluca

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