"CARO GRILLO, SONO UNO STUDENTE PRECARIO..."
Mi prendo una tregua dal tormentone-scalone per segnalare una lettera pubblicata su uno degli ultimi bollettini on line della Fondazione Marco Biagi. E' indirizzata a Beppe Grillo. E l'ha scritta uno studente precario, che non si riconosce nella visione apocalittica, ma al tempo stesso conformistica, del vostro tribuno del popolo.
"Gentile sig. Grillo,
mi permetto di scriverle dopo aver letto il Suo intervento, introduzione al libro “Schiavi Moderni”, pubblicato anche sul Bollettino ADAPT, della Fondazione Marco Biagi...
Sono uno studente di quasi 30 anni; ho lavorato (da prima della laurea) sempre con contratti di
collaborazione (alcuni dei quali, peraltro, anche ben remunerati), tuttora - dopo una scuola di
specializzazione triennale ed un dottorato - sto continuando il mio “apprendistato” in università; ed ho subito anch’io l’umiliazione di vedere respinta una richiesta di finanziamento per l’acquisto di un’auto perché “lavoratore precario”. La cosa curiosa è che ho dovuto chiedere ad un amico (insegnante presso una scuola statale) che guadagnava circa la metà del mio compenso di garantire la solvibilità, e solo con il suo intervento ho potuto accedere al finanziamento…
Ecco, da questa vicenda dell’auto emerge un punto della questione che a me sembra sottovalutato: a fronte di cambiamenti sociali ed economici del lavoro (i cambiamenti giuridici dirò poi che non sono così rilevanti) non sono corrisposti analoghi cambiamenti sociali ed economici di ogni altra branca della società: e soprattutto non è cambiata la cultura. Per cui continuano (le banche, i nostri genitori, gli intellettuali, di molti dei quali pur apprezzo il fervore, perché sono persone sincere come Lei, che si atteggiano a difensori di noi giovani) a trattare i nostri lavori come non lavoro: si è innescata una psicologica “trappola della precarietà”,
la cui unica via di uscita per ognuno di noi sembra essere il comodo “posto statale”, magari al comune, così non saremo costretti a fare troppa strada e potremo tornare a pranzo a casa.
Per anni mio padre, a fronte delle esperienze lavorative (tutte molto belle, a mio giudizio) che ho
vissuto, ha continuato a dirmi: “sì, è molto bello quello che fai... ma che ne pensi di fare qualche concorso, così il 27 del mese hai la certezza di una goccia continua?”. Solo qualche tempo fa, affrontando la questione in maniera un po’ più decisa, gli ho fatto presente che era per me umiliante questa sua continua solfa, che implicava un postulato, e cioè che possa dirmi professionalmente realizzato solo se raggiungo l’agognato “posto fisso”.
Questo solo io so: che lavorare, magari non con tutto l’apparato di tutela previsto per il lavoro
subordinato a tempo indeterminato in una grande impresa o al comune, è sicuramente meglio che non lavorare. E che anche lavorando come lavoratore a progetto o co.co.co. non mi è impedito di esprimere le mie capacità e la mia personalità.
Mi permetto poi, senza voler entrare nel merito, far notare che il lavoro parasubordinato non è stato inventato dalla riforma Biagi; che di esso c’è traccia in provvedimenti che risalgono agli anni ’60; che è dal 1995 che sono “esplose” le co.co.co; che la riforma Biagi ha sicuramente introdotto dei vincoli (poi si potrà dire che sono troppi o pochi, ma sicuramente ha introdotto dei vincoli e delle garanzie); che è quanto meno approssimativo (come Lei dice: absit iniuria verbis!) che “la Legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato”; che la fuga dalla subordinazione è proporzionale alla rigidità del tipo (tanto più si “blinda” il rapporto di lavoro subordinato tanto più si cerca di evadere dalla onerosità - non solo o non tanto economica - che il tipo ex 2094 c.c. implica). A me sembra che appuntare l’attenzione sul precariato (parola che ultimamente con stupore ho visto comparire anche nelle leggi dello stato) in alcuni ha il solo fine di esacerbare gli animi, contribuendo a diffondere quel meccanismo della trappola della precarietà di cui
dicevo. Piuttosto, è opportuno che ci si inizi ad educare sul valore del lavoro, a percepirlo come possibilità e capacità di costruzione, ad iniziare a sentire il lavoro per quello che è, e cioè espressione della propria personalità o - come dice la nostra Costituzione - “attività o funzione che concorre al progresso materiale e spirituale della società”. Invece, sembra che taluni vogliano dire che questa possibilità sia condizionata solo ad alcuni modi.
Da ultimo, mi permetto di farLe notare che il vero sfruttamento di certe tipologie avviene in maniera veramente odiosa nel pubblico impiego, allo scopo di aggirare i vincoli alle assunzioni che da qualche anno son sempre inseriti in finanziaria; poi, in genere, dopo qualche anno di sfruttamento dei co.co.co. di turno, vengono banditi dei concorsi loro riservati, con ulteriore fraudolenta violazione dell’obbligo costituzionale di assumere tramite concorso. Con l’effetto poi che chi è assunto così, dopo aver superato un periodo di prova che dura anni (e non sei mesi, come direbbe la legge), si trova spesso rancoroso e già sfiduciato…
Inoltre, i lavori “non standard” sono particolarmente diffusi tra quei datori di lavoro il cui
committente è (a volte esclusivamente) l’ente pubblico, che impone come criteri per le commesse quello del minore costo: e le imprese labour intensive, per vincere le gare di appalto abbattono il costo più rilevante, ossia quello del lavoro, anche per preservarsi dalla improvvisa cessazione dell’incarico. Ed io, nella mia pur breve esperienza, non ho mai visto un capitolato d’appalto che imponga determinati standard della qualità del lavoro: evidentemente, certi contratti di lavoro convengono anche (o forse soprattutto) all’appaltante ente
pubblico.
Quindi, forse, gli strali che pur giustamente scaglia, andrebbero indirizzati altrove.
Perdoni questa mia; Le assicuro che non è mero esercizio di stile, è solo che, come dicevo dianzi,
culturalmente c’è qualcosa da cambiare nella percezione di cosa sia il lavoro, cosa sia lavorare (e Glielo dice uno che quando aveva 16 anni non ha disdegnato di fare il manovale, e durante l’università ha di continuo lavorato per mantenersi agli studi); volevo – direi quasi con pudore – esprimerLe il mo fastidio per una certa maniera di parlare del lavoro (e del lavoro degli studiosi che hanno contribuito a redigere la riforma Biagi) e suggerirLe una riflessione secondo un’altra visione prospettica.
Prenda questa mia paginetta come un (umile) tentativo di amicizia…"
…Vincenzo P.
"Gentile sig. Grillo,
mi permetto di scriverle dopo aver letto il Suo intervento, introduzione al libro “Schiavi Moderni”, pubblicato anche sul Bollettino ADAPT, della Fondazione Marco Biagi...
Sono uno studente di quasi 30 anni; ho lavorato (da prima della laurea) sempre con contratti di
collaborazione (alcuni dei quali, peraltro, anche ben remunerati), tuttora - dopo una scuola di
specializzazione triennale ed un dottorato - sto continuando il mio “apprendistato” in università; ed ho subito anch’io l’umiliazione di vedere respinta una richiesta di finanziamento per l’acquisto di un’auto perché “lavoratore precario”. La cosa curiosa è che ho dovuto chiedere ad un amico (insegnante presso una scuola statale) che guadagnava circa la metà del mio compenso di garantire la solvibilità, e solo con il suo intervento ho potuto accedere al finanziamento…
Ecco, da questa vicenda dell’auto emerge un punto della questione che a me sembra sottovalutato: a fronte di cambiamenti sociali ed economici del lavoro (i cambiamenti giuridici dirò poi che non sono così rilevanti) non sono corrisposti analoghi cambiamenti sociali ed economici di ogni altra branca della società: e soprattutto non è cambiata la cultura. Per cui continuano (le banche, i nostri genitori, gli intellettuali, di molti dei quali pur apprezzo il fervore, perché sono persone sincere come Lei, che si atteggiano a difensori di noi giovani) a trattare i nostri lavori come non lavoro: si è innescata una psicologica “trappola della precarietà”,
la cui unica via di uscita per ognuno di noi sembra essere il comodo “posto statale”, magari al comune, così non saremo costretti a fare troppa strada e potremo tornare a pranzo a casa.
Per anni mio padre, a fronte delle esperienze lavorative (tutte molto belle, a mio giudizio) che ho
vissuto, ha continuato a dirmi: “sì, è molto bello quello che fai... ma che ne pensi di fare qualche concorso, così il 27 del mese hai la certezza di una goccia continua?”. Solo qualche tempo fa, affrontando la questione in maniera un po’ più decisa, gli ho fatto presente che era per me umiliante questa sua continua solfa, che implicava un postulato, e cioè che possa dirmi professionalmente realizzato solo se raggiungo l’agognato “posto fisso”.
Questo solo io so: che lavorare, magari non con tutto l’apparato di tutela previsto per il lavoro
subordinato a tempo indeterminato in una grande impresa o al comune, è sicuramente meglio che non lavorare. E che anche lavorando come lavoratore a progetto o co.co.co. non mi è impedito di esprimere le mie capacità e la mia personalità.
Mi permetto poi, senza voler entrare nel merito, far notare che il lavoro parasubordinato non è stato inventato dalla riforma Biagi; che di esso c’è traccia in provvedimenti che risalgono agli anni ’60; che è dal 1995 che sono “esplose” le co.co.co; che la riforma Biagi ha sicuramente introdotto dei vincoli (poi si potrà dire che sono troppi o pochi, ma sicuramente ha introdotto dei vincoli e delle garanzie); che è quanto meno approssimativo (come Lei dice: absit iniuria verbis!) che “la Legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato”; che la fuga dalla subordinazione è proporzionale alla rigidità del tipo (tanto più si “blinda” il rapporto di lavoro subordinato tanto più si cerca di evadere dalla onerosità - non solo o non tanto economica - che il tipo ex 2094 c.c. implica). A me sembra che appuntare l’attenzione sul precariato (parola che ultimamente con stupore ho visto comparire anche nelle leggi dello stato) in alcuni ha il solo fine di esacerbare gli animi, contribuendo a diffondere quel meccanismo della trappola della precarietà di cui
dicevo. Piuttosto, è opportuno che ci si inizi ad educare sul valore del lavoro, a percepirlo come possibilità e capacità di costruzione, ad iniziare a sentire il lavoro per quello che è, e cioè espressione della propria personalità o - come dice la nostra Costituzione - “attività o funzione che concorre al progresso materiale e spirituale della società”. Invece, sembra che taluni vogliano dire che questa possibilità sia condizionata solo ad alcuni modi.
Da ultimo, mi permetto di farLe notare che il vero sfruttamento di certe tipologie avviene in maniera veramente odiosa nel pubblico impiego, allo scopo di aggirare i vincoli alle assunzioni che da qualche anno son sempre inseriti in finanziaria; poi, in genere, dopo qualche anno di sfruttamento dei co.co.co. di turno, vengono banditi dei concorsi loro riservati, con ulteriore fraudolenta violazione dell’obbligo costituzionale di assumere tramite concorso. Con l’effetto poi che chi è assunto così, dopo aver superato un periodo di prova che dura anni (e non sei mesi, come direbbe la legge), si trova spesso rancoroso e già sfiduciato…
Inoltre, i lavori “non standard” sono particolarmente diffusi tra quei datori di lavoro il cui
committente è (a volte esclusivamente) l’ente pubblico, che impone come criteri per le commesse quello del minore costo: e le imprese labour intensive, per vincere le gare di appalto abbattono il costo più rilevante, ossia quello del lavoro, anche per preservarsi dalla improvvisa cessazione dell’incarico. Ed io, nella mia pur breve esperienza, non ho mai visto un capitolato d’appalto che imponga determinati standard della qualità del lavoro: evidentemente, certi contratti di lavoro convengono anche (o forse soprattutto) all’appaltante ente
pubblico.
Quindi, forse, gli strali che pur giustamente scaglia, andrebbero indirizzati altrove.
Perdoni questa mia; Le assicuro che non è mero esercizio di stile, è solo che, come dicevo dianzi,
culturalmente c’è qualcosa da cambiare nella percezione di cosa sia il lavoro, cosa sia lavorare (e Glielo dice uno che quando aveva 16 anni non ha disdegnato di fare il manovale, e durante l’università ha di continuo lavorato per mantenersi agli studi); volevo – direi quasi con pudore – esprimerLe il mo fastidio per una certa maniera di parlare del lavoro (e del lavoro degli studiosi che hanno contribuito a redigere la riforma Biagi) e suggerirLe una riflessione secondo un’altra visione prospettica.
Prenda questa mia paginetta come un (umile) tentativo di amicizia…"
…Vincenzo P.
3 commenti:
Cara Angela,
Bellissima riflessione, mi ci ritrovo totalmente con quello che dice questo ragazzo.
Il primo grande muro che un lavoratore "atipico" si trova a dover abbattere è la resistenza culturale, o meglio la pigrizia mentale al cambiamento di quelli che ci circondano (compreso i familiari)e delle istituzioni tipo banche, ecc.
Non scordiamoci, però, che tutti abbiamo diritto a delle tutele sacrosante (malattia, maternità ecc.)
E poi un'altra cosa: quanto è bella la diversità umana!!
Questo ragazzo è così pacato ed educato nell'esprimere il suo pensiero, B.Grillo invece non ha peli sulla lingua...
Cordialmente Anna
Il punto sta nelle motivazioni che ci portano a parlare delle cose.
Se per assecondare un credo politico oppure semplicemente per parlarne.
Condivido pienamente la lettera.
Sarebbe a dire che buona parte dello scandalo precariato è dovuto al fatto che la parte di società che dovrebbe permettere ad un lavoratore atipico di non sentirsi precario, è in netto ritardo sulle trasformazioni socio-economiche? Condivido. Arnald
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