lunedì 23 marzo 2009

La fine del lavoro e la scuola

E' ARRIVATA la fine del lavoro? Perlomeno del lavoro così come lo abbiamo conosciuto nel XX secolo? La domanda non è oziosa: la Fondazione Marco Biagi ha dedicato il suo convegno annuale all'occupazione giovanile e una delle sessioni è stata per l'appunto intitolata "The end of employment", che sta per "lavoro" ma anche, più correttamente "impiego". E, infatti, attraverso le relazioni di studiosi di diritto del lavoro provenienti da tutto il mondo, emerge proprio questo: viviamo in un momento in cui possiamo legittimamente chiederci se il lavoro stia cambiando pelle per sempre. La crisi globale accentua questa sensazione e mina ancora più velocemente le vecchie certezze.La lettura più ovvia di questa teoria è quella che deriva dall'avanzata dei lavori temporanei tra i più giovani. Questo avviene in tutto il mondo, ma la sensazione è più netta in Paesi che hanno sempre assegnato una particolare protezione al lavoro "per la vita". Il Giappone è un caso esemplare, ma l'Italia gli assomiglia moltissimo. Tra i giovani giapponesi, così come tra gli italiani, ci sono ormai percentuali inedite di lavoro temporaneo. E questo influisce sulla capacità di questi giovani di fare famiglia, e di fare progetti per il futuro. Al contrario dei giovani di altri Paesi (tradizionalmente più abituati all'incertezza) ai giovani giapponesi (così come ai giovani italiani) è stato insegnato che per sposarsi e fare dei figli bisogna aspettare di avere un lavoro definitivo. Oggi, molti di loro rischiano di aspettare troppo e di trovarsi fuori tempo massimo. Un altro problema delle generazioni più giovani in Occidente, ma anche in Oriente, sono le aspettative. Le loro aspettative sono molto più alte di quelle che furono dei loro genitori. E, purtroppo, nella società globale, l'incontro tra domanda e offerta del ”giusto” lavoro per la persona ”giusta”, si è fatto più difficile. Facile, più facile di quanto non fosse nel xx secolo, è trovare "un" lavoro, cioè una qualsiasi opportunità di lavoro. Ma "il" lavoro che piace, che si desidera, che ci soddisfa, che ci realizza, quello è un altro discorso. E molti giovani sembrano destinati a rimanere delusi.La risposta per molti è "educazione", scuola, skills, competenze. Giusto, ma la domanda è: quali competenze? Perché un'altra caratteristica di questo mercato è che è molto difficile prevedere le specializzazioni che saranno più ricercate e più spendibili sul mercato del lavoro in un certo lasso di tempo. Oggi constatiamo spesso che le aziende fanno spesso fatica a ricoprire certe posizioni lavorative. Ma da qui a 5 anni, chi è in grado di prevedere, e quindi di consigliare, a quali settori, a quali specializzazioni rivolgersi? Pochi. E chi lo fa rischia di essere smentito dalla realtà. Infine, con un brillante rovesciamento di impostazione, il professor Jacques Rojot di Parigi ha sorpreso tutti annunciando che, con il declino dell'industria tradizionale e l'avanzata dei servizi, sarà di fatto sempre più difficile distinguere i lavoratori per ciò che sanno fare. Ciò che sempre di più conta infatti è la capacità di comportarsi, di interagire, con il pubblico e sul lavoro. Behaviour, è stata la sua parola chiave. Sapersi ben comportare, essere appropriati, gentili, fa tutta la differenza in certi settori. Nessuno però lo insegna. La conclusione non è consolante: ogni Paese cerca di mettere in atto delle politiche che rendano più fluido il mercato del lavoro. Ma nessuno sa quale sia la politica giusta, nessuno può dire se ciò che funziona in un Paese possa essere trapiantato in un altro. Nel mondo convivono le situazioni estreme del lavoratore svedese, che per il 90% si aspetta di cambiare molte volte lavoro nel corso della vita, e quelle del lavoratore giapponese che, nella stessa percentuale, sogna invece la sicurezza totale, a vita, come ce l'avevano i suoi genitori. Tutti si affannano a parlare di formazione, di flessibilità, di flexicurity, eppure, come è stato ben sottolineato da una brillante docente americana, Susan Bisom-Rapp, i professori raramente si sentono responsabili del futuro dei loro studenti.Qui c'è una delle chiavi principali, il leit motiv di questa tre giorni di studio alla Fondazione Biagi, e uno dei punti fissi della ricerca di Marco Biagi e del suo allievo Michele Tiraboschi. Il momento più delicato, quello su cui più bisognerebbe concentrarsi per una politica del lavoro diretta ai giovani, è il momento della transizione scuola-lavoro. Le scuole, le università, quindi, devono essere responsabili. Così anche i professori. Un professore di statura internazionale, Roger Blanpain, belga, ha parlato di "ponti", di importanti misure ponte, che aiutino a superare le diverse fasi della vita lavorativa. E' in queste aree, in questi momenti di passaggio che le politiche pubbliche dovrebbero concentrarsi, soprattutto ora che c'è da costruire il ponte più importante, quello che ci permetterà, si spera, di arrivare indenni all'uscita della crisi.
(Pubblicato sul Messaggero del 23 marzo 2009)

3 commenti:

Unknown ha detto...

Prima domanda: ma molti giovani sanno quale è "il loro lavoro"?
che piace, che si desidera, che ci soddisfa, che ci realizza

Esclusi calciatore e velina intendo, lavori veri.

aste al ribasso ha detto...

Il futuro sarà sempre peggiore..

Anonimo ha detto...

@l'imprenditore
No, ovvio.

P.S

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