mercoledì 28 marzo 2007

LAVORO NERO


Abbiamo uno dei peggiori mercati del lavoro d'Europa e del mondo. Questo voglio dirlo perché me ne convinco sempre di più. E non vorrei essere fraintesa, anche se poi dico che è inutile piangersi addosso. Purtroppo siamo ignoranti (pochi laureati), e le imprese sono di basso livello, non si fa ricerca e il merito è un'araba fenice. Detto tutto ciò, mi chiedo perché si fa una battaglia così furiosa sul lavoro precario e non si parla mai del lavoro nero.
Secondo gli ultimi dati Istat disponibili, in Italia ci sono circa due milioni di precari. Lo so che altri calcoli comprendono anche una quota di partite iva, fino ad arrivare a cifre poco verificate, come tre o, perfino, quattro milioni. I numeri, purtroppo, spesso dipendono dalla scelta ideologica. Mi dispiace che questo avvenga sulla pelle delle persone. Ma tant'è. E il lavoro nero? Secondo l'Istat i lavoratori che vivono in questi abissi del mercato sono oltre 3 milioni e mezzo. Anche qui, credo che sia difficile pretendere cifre certe. Comunque, i lavoratori in nero sono più di quelli precari, che almeno hanno un contratto fanno un'esperienza che possono "rivendersi" al prossimo lavoro, hanno un'occasione, almeno un'occasione di inserimento.
Mi ricordo che si parlava moltissimo di lavoro nero negli anni Settanta e negli anni Ottanta. Aggiungo che allora il lavoro nero era normale in tutti i contesti: era un modo per cominciare a fare il giornalista, il professore universitario, il medico, e qualunque altro lavoro. Ci sono giornalisti che hanno cominciato negli anni Sessanta e Settanta, che hanno lavorato gratis e come abusivi in redazione per anni. Allora, guarda un po', quegli assistenti, quei medici in nero, si chiamavano precari! Poi li regolarizzarono. E per i più giovani tutto diventò più difficile, perché non c'era più spazio: gli ex precari avevano occupato tutti i posti. La storia purtroppo si ripete. Nella scuola per esempio ora si punta a regolarizzare i precari e di concorsi non si parla.
L'Italia mantiene ancora negli anni Duemila il primato del lavoro nero tra i paesi industrializzati. Si parla di una quota del Prodotto interno lordo pari addirittura al 25% . In altri paesi invece sarebbe il 13-15%.
Ingenuamente molti potevano pensare che, almeno, con il lavoro flessibile si sarebbe spazzata via una bella fetta di lavoro nero... invece no! In Italia è rimasto. Solo che non va più di moda parlarne. O no?
(cliccando sul titolo di questo post c'è il link alla ricerca Censis sul lavoro nero)

2 commenti:

L'Ingegnere pentito ha detto...

Sono d'accordo con te sul fatto che il lavoro nero sia da combattere.

Chissà quanti però attribuiscono al lavoro nero (seppure illegale) una valenza del tipo: "Se lavori in nero, intanto cominci..hai un "lavoro"..pensa quanti di quei giornalisti sono riusciti a farsi assumere.

Non vorrei che il lavoro precario, seppur regolato, non diventasse una cosa del genere.

Molti laureati cominciano con collaborazioni, che in realtà collaborazioni non sono. Un mio amico ingegnere non poteva avere la carta di credito del Bancoposta perchè era in Cococo (all'epoca).

Non fraintendere, capisco quale è la tua tesi, ossia che una flessibilità diffusa, per la quale anche il dipendente può usarla per giocare al rialzo, potrebbe portare ad una competività maggiore e ad una paura degli stessi imprenditori di perdere i pezzi migliori, costringendoli a pagarli meglio.

Però: avrebbero le stesse garanzie di assistenza sociale?
Avrebbero lo stesso trattamento previdenziale?
Avrebbero, e se ne è già discusso, un dignitoso trattamento di disoccupazione?

Anonimo ha detto...

La mia impressione e' che il lavoro precario abbia consentito a molte aziende che non possono assumere in nero (multinazionali, per esempio, vicolate da uno pseudo codice-etico) di avere gli stessi vantaggi dell'assunzione di un lavoratore in nero (licenziamento, basso costo ecc) senza correre rischi o violare (pseudo)codici comportamentali: questo ha comportato uno svilimento anche del lavoro a tempo indeterminato. Svilimento che riguarda sia quelle professionalita' per le quali l'esperienza acquisita in anni non costituisce un valore aggiunto (semplicemente perche' tutta l'esoerienza necessaria per svolgere quel lavoro si acquisisce in pochissimo tempo), per le quali il lavoratore anomalo costituisce un concorrente diretto, ma anche (e qui sta l'inghippo) per quelle professionalita' altemente specializzate (e di nicchia), per le quali l'esperienza e la formazione costituiscono un valore fondamentale per l'azienda. Infatti anche se queste non sono minacciate direttamente dal lavoratore 'temporaneo', che' non potrebbe garantire la professionalita' necessaria, lo sono indirettamente, proprio perche' impediscono il turnover del lavoratore a tempo indeterminato (che, checche' se ne dica e' l'unico mezzo reale del lavoratore dipendente di medio-alto livello intellettuale per ottenere miglioramenti significativi delle condizioni lavorative ). In altri termini, se io, lavoratore dipendente a tempo indeterminato, non posso dimettermi per cambiare azienda, magari ricominciando da zero, perche' i posti meno qualificati dai quali, eventualmente, ripartire possono essere appannaggio di lavoratori meno costosi, l'azienda per cui lavoro ha gioco facile a dettarmi le sue condizioni. L'unico modo che ho io per difendermi e' trovare un'altra azienda di nicchia che abbia bisogno della mia esperienza SPECIFICA, non della mia esperienza lavorativa in generale...
Spero di essermi spiegato, e' un ragionamento un po' contorto :)

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