lunedì 29 settembre 2008

DISOCCUPAZIONE IN SALITA, DONNE IN DISCESA

Per la prima volta dopo molti anni, la disoccupazione riparte anche in Italia. E’ arrivata al 6,7%, dal 5,7% dell’anno scorso. Un pessimo segnale, doopo che negli ultimi anni il numero dei disoccupati da noi è stato a livelli estremamente bassi, direi record per l’Italia, e più bassi di altri paesi europei, come la civile Francia. L’Italia però ha un peccato originale: il numero degli occupati, e di coloro che cercano lavoro, storicamente è molto più basso che in altri paesi. Il motivo è presto detto: mentre la percentuale di uomini che lavora è più o meno uguale al resto d’Europa, da noi le donne non lavorano. O comunque quelle che lavorano sono pochissime, se si fa il confronto con l’estero. Il dato nazionale è intorno al 46% (corretto) ma nel Sud si precipita a poco oltre il 30%. Questo è il nostro buco nero.
Tenendo fermi questi dati, va detto che negli ultimi anni i miglioramenti ci sono stati (nonostante la bassa crescita e la bassa produttività): il numero degli occupati negli ultimi dieci anni è costantemente aumentato. E’ aumentato un po’ anche il numero delle donne occupate, ma in misura estremamente più bassa di ciò che si potrebbe e dovrebbe aspettare (e che ci viene richiesto dagli accordi europei). Anche questa volta il numero degli occupati aumenta dell’1,2%. E’ poco, meno degli anni precedenti. Ma il mercato del lavoro comunque non ha l’encefalogramma piatto.
Però il dato della disoccupazione è preoccupante, ed è in linea con la tendenza di altri Paesi: pochi giorni fa l’allarme è suonato anche in Spagna, dove il tasso di disoccupazione sta schizzando verso l’alto e preoccupa un’economia che negli ultimi anni aveva fatto gridare al miracolo. Il rallentamento della crescita in tutto l’Occidente non può non avere riflessi su l mercato del lavoro. Quindi succede ciò che era facile aspettarsi.
Tuttavia nell’aumento della dicossupazione c’è anche un altro fattore: l’aumento di quelli che cercano lavoro. Magari poi non lo trovano, ma sempre più persone, soprattutto donne, si mette in cerca di un posto. Quest’anno sono 291 mila persone in più. Anche questo è un dato che può essere a doppio taglio. C’è chi lo legge come un segno di crisi: le famiglie non ce la fanno ad andare avanti e quindi alcuni membri tradizionalmente non occupati (vedi le casalinghe) si cercano uno stipendio per ”arrotondare”. Tuttavia questa interpretazione è riduttiva. E’ da paese moderno che sempre più donne entrino nel mercato del lavoro. E’ in questa direzione che vanno storicamente le economie industrializzate contemporanee, e sempre più questo fenomeno dovrebbe avvenire anche in Italia. Che poi alla domanda di posti di lavoro non corrisponda un’offerta adeguata e molte aspettative vadano deluse è esattamente ciò intorno a cui ci si dovrebbe interrogare. Infatti sono le donne le più penalizzate in questo momento, lo rilevano esattamente le cifre Istat: i nuovi disoccupati sono esattamente loro, le donne, e in particolare le donne del Sud.
Allora ci dobbiamo chiedere: cosa stanno facendo le nostre imprese, il governo, le istituzioni pubbliche e private, per favorire l’incontro di domanda e offerta di lavoro? Cosa si sta facendo per aiutare le donne a entrare nel mercato del lavoro e a rimanerci, senza atti di eroismo? Cosa si sta facendo per favorire le famiglie in maniera moderna a conciliare lavoro e vita privata, per tutti, uomini e donne? Un esempio solo: quanti nuovi posti negli asili nido sono stati creati negli ultimi mesi? Quanti posti saranno creati nei prossimi 2-3-5 anni? La Ue ci chiede di dare un posto nei nidi almeno al 30% dei bambini. Attualmente da noi ce l’ha solo uno su dieci. le mamme degli altri 9, per lavorare, devono arrangiarsi.
Al di là dei freddi numeri, che pure dobbiamo tenere presenti, queste sono le domande chiave che dovrebbero guidare l’interpretazione delle cifre. Altrimenti i dati possiamo anche giocarceli al lotto, e sperare così di risolvere quei problemi che sembrano insolubili.

venerdì 26 settembre 2008

DILEMMA ALITALIA

aggiornato link

Domanda: ma se i piloti Alitalia dicono no all'accordo, e se poi quando la nuova società proporrà loro un posto di lavoro alle nuove condizioni loro rifiuteranno, è giusto che godano della cassa integrazione? Il ministro Sacconi aveva detto che no, secondo lui non andrebbe applicata (anche se poi lo sarà). Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd oggi dai microfoni di Radio Radicale, insiste anche lui: in nessun paese chi rifiuta un posto di lavoro ha diritto agli ammortizzatori sociali. Naturalmente nessuno di noi vorrebbe che i piloti o altri dipendenti siano sottoposti a condizioni capestro...insomma, il problema è fondamentale per il modo in cui non solo si intendono i rapporti di lavoro, ma soprattutto gli ammortizzatori sociali. In Italia hanno sempre favorito solo alcuni, trascurando tutti gli altri e rendendo il mercato del lavoro italiano particolarmente "bastardo". Allora?

Segnalo, nel corso dell'intervista che abbiamo fatto a Ichino in "In ginocchio da te", con Valeria Manieri e Michel Martone, anche la questione del lavoro femminile, tema di cui in questi mesi non si discute più. Sottolinea Ichino: su 5 milioni di lavoratori che in Italia mancano all'appello, 4 milioni sono donne. E questo descrive sinteticamente alcuni fra i più gravi problemi strutturali della nostra economia.

martedì 23 settembre 2008

COME LAVORARE BENE E RIPRENDERSI IL TEMPO



Dobbiamo tutti lavorare di più, e meglio! Difficile pensare a un contesto nel quale questa frase non venga ripetuta e sottolineata con enfasi. Ma cosa vuol dire esattamente? In Italia i lavoratori già svolgono un numero di ore maggiore di quello di altri paesi industrializzati avanzati (tranne gli Stati Uniti, dove effettivamente si fanno più ore e meno ferie). Certo, da noi sono tanti quelli che non lavorano. E non parlo dei disoccupati, ma proprio di quelli che non si accostanto al lavoro per vari motivi. Tra questi soprattutto le donne, e chi mi legge sa che in Italia abbiamo la percentuale di donne al lavoro più bassa d'Europa. Una vera vergogna. Uno dei motivi di tutto ciò è che è sempre più difficile lavorare e, al tempo stesso, far funzionare la vita privata delle persone, perché il lavoro sembra costruito intorno all'idea che chi lavora faccia quasi solo quello mentre a, tutto il resto dei suoi bisogni ci penserà qualcun altro: una moglie, magari. Ovvio che con un'immagine del genere tutto diventa praticamente impossibile. Attorno a questi temi e all'utilizzo del tempo tra lavoro e vita privata , mi sono molto arrovellata negli ultimi tempi, tanto che avevo anche buttato giù l'impalcatura di un libro. Tuttavia, strada facendo, l'obiettivo mi era sembrato fin troppo ambizioso e, per l'Italia, quasi impossibile da portare in cima all'agenda del mondo politico e imprenditoriale.

Tuttavia il tema assedia il mondo del lavoro e lo dimostra questo libro uscito in America e ora tradotto anche da noi: "Perché IL LAVORO FA SCHIFO e come migliorarlo", di Cali Ressler e Jody Thompson, edizioni Elliot. Non per caso, le autrici sono donne. Le donne hanno una acuta percezione del bisogno di gestire in modo più efficiente il tempo, anche per non rimanere vittime dell'impossibilità di fare tutto. Il libro è tipicamente americano: scritto in uno stile piano, semplice e ripetitivo, destinato a un pubblico molto meno raffinato ma anche molto più numeroso di quello europeo. Parte dall'analisi di un esperimento in una azienda americana, la Best Buy, dove le autrici hanno collaborato a introdurre un nuovo sistema di lavoro, detto ROWE: results-only work environment. Ambiente di lavoro basato sui risultati. Il TEMPO è il vero protagonista del libro. Il tempo di lavoro viene attaccato, bombardato e sgretolato dal nuovo modello. Le briciole poi vengono reimpastate insieme al resto della vita privata, condite con dosi massicce di moderna tecnologia ormai comune nelle nostre case e nei nostri uffici, fino a modellare un nuovo tipo di azienda e di lavoratore. La chiave di quest'opera di smontaggio e rimontaggio sono gli OBIETTIVI e i RISULTATI. L'azienda deve fissare gli obiettivi, i lavoratori portare i risultati. Tutto il tempo che di solito c'è nel mezzo di questo operazione, e lo spazio in cui l'azione si svolge, non esistono più.

Scrivono le autrici: "Se il nostro capo dovesse scegliere tra concederci una mezz'ora per sbrigare le nostre faccende personali o farci partecipare a una riunione di un'ora dove la nostra presenza non è necessaria, è probabile che la maggior parte dei dirigenti opterebbe per la riunione. Anche di fronte alla certezza che alla riunione non si combinerà niente e che potrebbe durare più di un'ora, molti dirigenti preferirebbero senz'altro avere i propri dipendenti in ufficio, magari a non fare niente, piuttosto che non averli sott'occhio mentre sono fuori a fare qualcosa di concreto" (p. 116) La rivoluzione introdotta dalle due autrici alle Best Buy è che invece le riunioni sono facoltative (sta al lavoratore giudicare se siano utili) e che l'orario di lavoro non esiste più. Fine. Ciò che conta sono i risultati. Se il lavoratore produce risultati entro le scadenze previste, tutto il resto all'azienda non deve interessare. Può lavorare da una spiaggia, in casa in mutande, durante la notte, assistere la mamma malata in un altro Stato, seguire la propria band preferita in giro per il mondo per tre settimane, senza prendere neanche un giorno di ferie. Basta che nel frattempo "produca". E tutto ciò è possibile grazie al fatto che la maggior parte dei lavoratori oggi non avvita bulloni a una catena di montaggio, ma produce idee, conoscenza, applica saperi, e lavora con computer e cellulare. Scrivono ancora le autrici: "Tutto è ammissibile purché il lavoro sia portato a compimento. Inaccettabile semmai è l'assenza dei risultati. E non la scarsa presenza in ufficio o la timidezza durante le riunioni, oppure un tatuaggio o uno strano modo di ridere. Se non si porta a termine un certo incarico, si perde il lavoro. In caso contrario, si conquista la libertà" (p. 117) Nel libro ci sono anche alcune testimonianze. Come quella di Trey, 30 ani, esperto di e-learning: "Faccio ciò che voglio, quando e quanto voglio. Perlopiù lavoro in base alle mie esigenze. E, considerato che porto sempre a termine i miei incarichi, mi godo la vita al massimo e al contempo lavoro per una grande azienda" (p.101) La conseguenza di tutto ciò è che "il personale diventa proprietario del proprio lavoro. Viene pagato per i risultati e, quindi, comincia a d agire da imprenditore, sente quasi di avere una quota del capitale dell'azienda" (p. 136). Qui il discorso si fa molto complesso. Almeno in Italia. Gli esperimenti di responsabilizzazione del lavoratore rispetto al risultato sono ancora scarsi, ma hanno gli imprenditori tra i principali sostenitori. Da parte del lavoratore si potrebbe preferire la sicurezza dell'orario alla responsabilità dei risultati. Ma il libro sottolinea come questo sia un atteggiamento infantile, nel quale il lavoratore si fa trattare come un bambino minorenne, cui i genitori danno i premi se si comporta secondo le regole. Insomma, qui tratta di mettere in discussione una cultura del lavoro vecchia di un paio di secoli, figlia della rivoluzione industriale e ormai anacronistica nell'era digitale del web. Una cultura nella quale la produttività, la responsabilità e i risultati andrebbero esaminati e ridefiniti. Inoltre ogni azienda, e ogni tipo di lavoro, hanno certamente esigenze e difficoltà intrinseche. Bacchette magiche per rivitalizzre la nostra asfittica "vita privata" non esistono. Però il tema è gigantesco e nel futuro credo che se ne discuterà sempre più spesso.

venerdì 19 settembre 2008

ESAMI SENZA FINE, LAUREA SENZA VALORE


Anche l'Università italiana e i suoi meccanismi di valutazione finiscono nel mirino di chi chiede più serietà e selezione negli studi. Un articolo di Paolo Balduzzi su la voce "La lotteria Italia degli esami", attacca il sistema tutto italiano degli appelli mensili e della ripetibilità degli esami, nonché la facilità con cui viene dato il massimo dei voti ai laureandi. Sembra strano, ma nelle tante discussioni sull'università, la necessità di rilanciare il "merito", il valore dei professori e la loro propensione a essere presenti e disponibili per gli studenti, questo tema non è mai stato toccato. Eppure, qualunque studente universitario che abbia avuto contatti con altri ragazzi di università straniere, sa che l'Italia rappresenta una vera anomalia. Come dice Balduzzi, di solito all'estero gli esami si fanno una volta l'anno, alla fine del corso. Se l'esame va bene, si prende il voto e basta, se va male sono dolori. Nessuno può prolungare all'infinito la durata del corso di laurea e nessuno si può permettere di "rifiutare" un voto. In Italia si crea la situazione paradossale che il 30% dei laureati strappa il 110 e lode (una percentuale molto alta), ma abbiamo la media di durata degli studi più lunga. Va ricordato che l'appello mensile, è una "conquista" decennale, voluta fortemente dagli studenti. Ma è veramente nel loro interesse? Cioè, è nell'interesse di chi crede che gli studi universitari dovrebbero rappresentare la propria "dote" e quindi essere adeguatamente valutati poi nel mercato del lavoro? Si dirà che ci sono gli studenti lavoratori, che ci sono mille problemi, che c'è chi è più lento e chi è più veloce...ma tutto ciò non cambia il fatto che il confronto con i sistemi universitari stranieri lascia perlomeno perplessi. Una modifica di questi meccanismi probabilmente sarebbe utile anche a ridare dignità e valore al diploma di laurea.

lunedì 15 settembre 2008

SCUOLA: LUTTI, AUTOCRITICHE E WEB



Se è vero che oggi a Roma genitori e professori di 70 scuole si presenteranno al suono della campannella con il lutto al braccio, per quello che la povera Gelmini sta tentando (e sottolineo tentando), cioè di ridare un senso a una scuola che quasi non ce l'ha più....bè, vedremo se veramente lo faranno. Della serie: la fiera dell'autolesionismo.


Approfitto dell'occasione per segnalare l'articolo di Claudia Mancina sul Riformista di qualche giorno fa, che mi era sfuggito e invece merita di essere letto, sottolineato e conservato. Titolo "Caro Pd, la Gemini ha ragione". Chi avrà la pazienza di leggerlo vedrà come un politico e intellettuale di sinistra, che conosca i problemi della scuola, non possa evitare di prendersela con i lunghi anni delle riforme della scuola della sinistra e con gli equivoci nei quali è caduta. Per esempio, quello che qui dico sempre, l'errore di considerare la scuola come l'insieme dei problemi sindacali dei docenti, invece che come l'insieme dei diritti e dei doveri degli studenti; o il malinteso egualitarismo, che ha prodotto mancanza di promozione sociale per i più svantaggiati; o semplicemente l'impreparazione sempre più diffusa degli studenti, che come al solito danneggia chi è già più impreparato.



Mi sembra poi che valga la pena seguire lo Scuola@day del Sole24Ore che oggi dedica una lunga non stop all'argomento sul proprio sito web

mercoledì 10 settembre 2008

PRIMO GIORNO DI SCUOLA. Diario di bordo




Seconda media, primo giorno di scuola dell'era Gelmini.





La scuola comincia mentre infuriano le polemiche su giornali, radio, tv e web. I genitori e i ragazzi hanno scoperto fortunosamente che il rientro in classe era stato fissato, durante l'estate, al 10 settembre. Peccato che alla fine dell'anno scolastico tutti pensavano che le scuole a Roma ricominciassero il 15. Tanto peggio per chi aveva deciso di fare le vacanze nella prima metà di settembre (negli uffici le vacanze si pianificano verso maggio).
I giorni precedenti al rientro sono stati occupati dai preparativi e, per molte famiglie, dalla pianificazione dei pomeriggi che ci aspettano, con incroci difficili tra orari scolastici, palestra, musica, e altre attività che la scuola non garantisce a sufficienza (per esempio lingua straniera, gruppi scout, eccetera), nonché orari di lavoro dei genitori, arruolamento di baby sitter, nonni, eccetera. Ma il primo scoglio si è presentato proprio oggi: a che ora usciranno i ragazzi? Ci sarà un orario provvisorio, si sono detti i genitori, che si illudevano di basarsi su un empirica esperienza pluridecennale (la propria di studenti e di genitori). Nessuna comunicazione ufficiale della scuola, nessun cartello sul portone (perfino Martin Lutero, in tempi ante-internet aveva usato questo sistema per diffondere le proprie tesi e lo aveva trovato abbastanza comodo). Diciamo il minimo. No, l'unica era svolgere un'inchiesta personale e, stamattina, la voce ufficiale della scuola è stata un gentile bidella (ma forse chiamarla così è scorretto, me ne scuso) che, interrogata, comunicava gioiosamente che la scuola faceva subito l'orario pieno con la mensa e tutto. I ragazzi delle sezioni a tempo pieno, quindi, usciranno alle 16,10. Il motivo di tanta efficienza? "Gli insegnanti quest'anno ci sono tutti!" La Gelmini ha fatto il miracolo, e questa sembra una bella notizia.

Però. Però ci potremo chiedere se per i ragazzi sia giusto cominciare fin dal primo giorno con un orario così lungo, o se invece, non fosse meglio partire con tre-quattro ore di lezione e poi passare, nel giro di pochi giorni, all'orario pieno. Questo non se lo chiede nessuno. "Gli insegnanti ci sono". Gelmini o non Gelmini, la scuola ruota, questo è il punto, intorno agli insegnanti: se loro non ci sono, tanto peggio per i ragazzi e le famiglie; se ci sono, tutti sui banchi per otto ore fin dal primo giorno. Ma cosa è meglio per gli studenti? Vogliamo chiedercelo?

L'Ocse intanto ci informa per l'ennesima volta che la scuola italiana ha prestazioni scadenti, che gli insegnanti da noi sono più numerosi che in altri paesi, che guadagnano meno, lavorano meno e, aggiungiamo noi, nessuno sa più come vengano selezionati. Si parla ora tanto di merito, di qualità...ma chi e come scoprirà se un insegnante è capace di insegnare, se è competente, se sa trasmettere entusiasmo, regole, capacità ai suoi alunni? Su questo, purtroppo, c'è un notevole silenzio. Però si dibatte sul maestro unico. Chiaro che negli anni tutti siamo giunti a pensare che era meglio dividere il rischio attraverso più docenti piuttosto che puntare su un solo maestro che, se incapace, ci sarebbe rimasto sul groppone per molti anni. Insomma il problema vero è la competenza e l'autorevolezza degli insegnanti. Non la divisa, i voti o altri dettagli. Agli studenti, dei problemi dei prof, che siano personali o sindacali, importa poco. Sono i prof che devono interessarsi dei problemi degli studenti e non sarà certo aumentando le ore di lezione fino allo svenimento che migliorerà la preparazione. Lo dimostra il fatto che nelle scuole straniere si passa più tempo a ricreazione e meno sui banchi. Eppure si impara di più. Per approfondimenti, due interessanti articoli in merito al maestro unico sulla voce.info qui e qui.

domenica 7 settembre 2008

DONNE, SCUOLA, LA POLITICA A CACCIA DELLA REALTA'
















Le vacanze sono quasi finite. E' ora di riprendere a lavorare e a discutere. Sono due i temi sui quali quest'anno si concentrerà l'attenzione di Cambiamondo: la scuola e le donne. Oltre, naturalmente, ai soliti, i giovani, il lavoro, la produttività, la conciliazione tra lavoro e vita. E chissà che quest'anno non si impongano anche altre questioni. Per esempio, non mi negherò delle incursioni nelle elezioni americane, che potrebbero cambiare il panorama politico non solo negli Usa ma in tutto il mondo.





Intanto, però, la scuola, le donne. Due temi che sembrano avere poco in comune, o forse "troppo". Ma che rappresentano due territori nei quali la politica deve toccare per forza la realtà. E sporcarsi le mani. Sui giornali di questi giorni se ne parla molto. Delle donne, per esempio, su La Stampa Barbara Spinelli tratta con una certa sufficienza e sdegno questa irruzione delle donne nella politica contemporanea. Vi ci vede una sopravvalutazione del "corpo", cui contrappone una politica nella quale la fisicità, il corpo, lo stesso gossip, erano esclusi. Una politica fatta da intellettuali, da politici "puri". Ma ricordiamoci che quella era la politica in cui dominavano le ideologie tradizionali, il fascismo, il comunismo. Oggi l'ideologia non ha più diritto di vita e di morte sulla politica, il che non vuol dire che sia finita. Si può fare idologia su ttto, sulla pancia delle donne, come sulla falce e martello. Un bel groviglio, testimoniato da una visione completamente opposta, che è quella di Antonella Boralevi su Il Messaggero. Se la Spinelli storce la bocca per l'ideologia della "femmina portatrice di novità", la Boralevi ne saluta l'aspetto salvifico. Purtroppo, quando ci sono di mezzo le donne, non si riesce mai a essere normali. Però io non riesco a rimpiangere nemmeno la "normalità" di barbogi incravattati, che parlano di politica come se non riguardasse la vita delle persone.





Un discorso simile vale per la scuola. Qui si deve mettere il dito nella piaga e cercare di toccare la realtà. Ma ci si accorge subito quanto la realtà ci sfugga, annegata nella nebbia dei luoghi comuni, delle inezie, di problemi marginali, di grandi tabu. Un esempio per tutti: sul Corriere della Sera c'è un'inchiesta sugli insegnanti, vecchi, mal pagati, precari a vita. Una fotografia purtroppo esatta, che però vede la realtà solo da una parte di un immaginario vetro magico: quello degli insegnanti. E il punto di vista degli studenti, la loro esigenza di avere in classe professori bravi, preparati, autorevoli, divertenti (e sottolineo divertenti) ? Ignorato. Si racconta solo la triste solfa di professori che hanno cominciato a lavorare a 34 anni, che a 54 ancora non hanno una cattedra fissa (ma siamo proprio sicuri che agli studenti non faccia bene cambiare insegnante ogni anno?), che non sappiamo quanto siano preparati, che selezioni abbiano superato, con quale punteggio, con quali risultati tra i ragazzi. Di ciò nulla si dice. Anzi, è un tabù. Come si potrebbe mai osare di mettere in discussione la preparazione di un insegnante che lavora da 20 anni? Eppure tutti noi conosciamo chi, lavorando da una vita, lavora sempre male. Ecco, come sempre, farò arrabbiare qualcuno, speriamo.

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