Non è un paese per giovani
Qualcuno è già stufo. Per un po' ha sopportato, ma ora già non ne può più di sentir parlare del dovere di aprire gli spazi ai giovani, di dare più peso politico ai giovani. E' strano, perché questi "giovani" non sono da nessuna parte, se non in qualche discorso di facciata, per l'appunto. "I giovani italiani sono tra quelli con minor peso politico nel mondo occidentale", scrivono Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina in "Non è un paese per giovani", Marsilio editore. Una ricerca sulla condizione dell'Italia, un paese che vive sulle rendite e pensa poco al futuro, nel quale il debito pubblico blocca qualunque slancio progettuale, nel quale scarseggiano le utopie, ma anche più prosaicamente, manca l'idea stessa di "bene pubblico, di bene comune", e nel quale come conseguenza, anche la condizione dei giovani non è buona.
E' importante, secondo me, sottolineare che le prospettive pessime dei ventenni e dei trentenni dipendono dal contesto generale. Altrimenti sembra che si facciano appunto i soliti discorsi da "largo ai giovani", che poi giustamente suscitano la reazione nauseata dei cinquanta-sessantenni che chiedono quale senso abbia disprezzare (a parole, ben inteso) la loro esperienza e le loro competenze. E' importante ciò che scrivono Ambrosi e Rosina:"Meno si investe sui giovani e li si valorizza e meno essi potranno giovare al proprio paese, contribuire fattivamente al suo sviluppo (...)dal successo individuale nel processo del diventare adulti dipende anche il futuro e il successo della comunità civile nel suo complesso" (p. 23). Ecco perché chi prende sul serio questo discorso, in realtà, sta facendo un discorso sull'investimento nel futuro, nella crescita del Paese. Altro che buonismo: i giovani vanno sfruttati. Vanno "utilizzati" per ciò che sanno fare: dare slancio al cambiamento. Non a caso, sia detto per inciso, il "change" vincente di Obama.
I dati parlano chiaro: siamo l'unico grande paese nel quale è occupato solo un giovane (tra i 15 e i 25 anni) su quattro; siamo l'unico grande paese che ha un'elite formata al 45% da ultrassettantenni (gli altri paesi sono al 30%). Non parliamo di stipendi bassissimi all'accesso al lavoro, di professori universitari under 35 (qualcuno una volta li ha definiti dei panda). E non parliamo di natalità, causa ed effetto dello scarso peso politico dei giovani in Italia. Oggi i giovani, anagraficamente, sono una rarità.
Guarda caso, la situazione in cui si trovano i giovani in Italia è condivisa con un'altra larghissima fetta della popolazione: le donne. Ambrosi e Rosina lo notano, anche se in un solo capitoletto: anche le donne sono state escluse dal potere. "Le redini delle istituzioni, delle aziende, dei giornali [sono] stranamente finite tutte in mano agli uomini" (p. 85). Non che qualcuno le abbia volutamente escluse, non che alcuna legge impedisca alle donne di occupare questi posti. No. "semplicemente e silenziosamente, per quei posti furono scelti sempre gli uomini", scrivono gli Autori. E, anche in questo caso come in quello dei "giovani", non manca chi le invoca, chi le utilizza come icone, immagini "interessanti", chi addirittura, aggiungo io, quando si fa una nomina importante proclama che "la prossima volta" per questo posto vedrei bene una donna". Una bella presa in giro. La verità è che abbiamo una struttura di potere "tenacemente antiquata", che esclude i giovani, e le donne, riproducendosi sempre per cooptazione dell'uguale.
Le colpe? Al primo posto le "pratiche selvaggiamente gerontocratiche, familiste e corporative" dominanti, messe in pratica da chi ha il potere e , magari, si riempie la bocca di peana al "merito", che però non mette in pratica.
Va detto però che qualche "colpa" ce l'hanno anche loro, i giovani, con i quali invece Ambrosi e Rosina sono forse anche troppo indulgenti. Sottolineano l'assensa di dissenso e di conflitto che li affligge. Sottolineano il loro essere spesso viziati da famiglie iperprotettive, che li hanno cresciuti nelle comodità. Notano come i giovani italiani, pur lavorando meno dei loro coetanei stranieri, ben difficilmente rinuncino (al contrario di quelli) alla macchina, al cibo buono, a vestiti inutilmente costosi e firmati", eccetera. Ambrosi e Rosina aggiungono anche che tra i giovani italiani non solo "le utopie scarseggiano", ma è subentrata "una privatizzazione dei fini, una riduzione della speranza al piccolo ambito quotidiano (...) E' come se i giovani di oggi, invece di fare la rivoluzione pubblica, cercassero di mettere in atto una micro rivoluzione permanente e privata" fatta di realizzazione di sé, autenticità personale e così via.
Ma gli Autori giustificano tutto ciò con l'estrema precarizzazione del lavoro che instillerebbe incertezza e incapacità di reagire " per paura" che qualcosa possa essere loro "tolto". E qui la storia si incarica di dimostrare che non può essere così, che i giovani hanno sempre cercato di far valere i propri diritti, anche in condizioni estremamente sfavorevoli. Esempi a noi contemporanei di altri paesi (vedasi Iran) stanno lì a dimostrarlo.
La conclusione che se ne trae è che viviamo in un paese antiquato e bloccato. E che certi blocchi e certe "arretratezze" culturali colpiscono gli stessi giovani e le stesse donne, i quali non si rendono neanche del tutto conto delle ingiustizie, delle esclusioni che subiscono.
"Non è un paese per giovani" non lascia, alla fine, grandi speranze. Però segnala brevemente quattro "muri da abbattere" per cominciare a smuovere le acque dell'Italia bloccata. I quattro "muri" sono l'enorme debito pubblico, l'iniqua ripartizione delle spesa per la protezione sociale, i vincoli anagrafici di accesso alle cariche pubbliche, i meccanismi di rinovo della classe dirigente. Da qui, per quanto arduo, si deve partire.