martedì 31 marzo 2009

Pensionata sarà lei


Voglio, per una volta, prendermi un po' di riposo e pubblicare l'articolo di un collega, maschio, su un tema che ritengo molto importante e interessante: l'età pensionabile delle donne. Ecco il pezzo di Pietro Piovani, pubblicato sul Messaggero di domenica 29 marzo, sul libro curato da Emma Bonino, Pensionata sarà lei, Rubbettino editore.


Un giorno all’aeroporto di Fiumicino la vicepresidente del Senato Emma Bonino fu avvicinata da una signora, che le disse: «Sei sempre stata dalla parte delle donne. Ma adesso proprio non ti capisco: io non vedo l’ora di andare in pensione!». La signora contestava la presa di posizione della Bonino sull’età pensionabile femminile. In effetti non è facile convincere una donna che deve perdere un diritto (quello di andare in pensione cinque anni prima degli uomini) e che oltretutto deve essere contenta perché a perdere quel diritto ci guadagna.Proprio questo è l’intento del libro Pensionata sarà lei (edito da Rubbettino, 12 euro). Si tratta di una raccolta di brevi saggi curata dalla stessa esponente radicale. Gli interventi sono di segno molto diverso fra loro, e includono anche gli argomenti di chi è contrario a una riforma che allunghi l’età lavorativa delle donne; in particolare le sindacaliste e i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil, che nella seconda sezione del volume si dichiarano favorevoli a un innalzamento della soglia per la pensione solo su base volontaria.L’argomento principale di chi invece reclama la cosiddetta “equiparazione” fra donne e uomini è quello esposto dall’economista Fiorella Kostoris Padoa Schioppa. La pensione a 60 anni e gli altri privilegi previdenziali concessi alle lavoratrici sono «tardive compensazioni rispetto a grandi discriminazioni sofferte dalle donne italiane nel mondo del lavoro: too little, too late», troppo poco e troppo tardi. Perciò, sostiene la Kostoris, le donne dovrebbero rifiutare questo privilegio, e chiedere piuttosto «che gli eventuali risparmi ottenuti dalla finanza pubblica siano devoluti al miglioramento delle opportunità e del trattamento delle donne nell’occupazione».Quale miglioramento? Le idee non mancano. C’è chi, come la sociologa Chiara Saraceno, suggerisce di usare i soldi per aiutare chi assiste i figli, i parenti anziani, gli invalidi: prevedendo congedi retribuiti, ma anche contributi figurativi, in modo da non essere penalizzate poi quando si andrà in pensione.Un’altra proposta forte è quella di ridurre il peso del fisco sul lavoro femminile. Qualcosa in questo senso è stata già fatta con la Finanziaria del governo Prodi, ma servirebbe molto di più. È vero che le regole dell’Unione europea vietano interventi fiscali di tipo sessista, ma con alcuni accorgimenti l’ostacolo potrebbe forse essere superato. Tanto più che - lo ricorda fra gli altri il giuslavorista Pietro Ichino è la stessa Ue a imporci di arrivare al 60% di occupazione femminile entro il 2010. Un traguardo che al momento appare fuori dalla nostra portata.La premessa necessaria per realizzare tutte queste belle idee è che dall’innalzamento dell’età pensionabile femminile derivino dei risparmi. Al momento però il dibattito investe soltanto le dipendenti pubbliche. Mentre, come sottolinea Fiorella Kostoris, i veri risparmi si possono ottenere soltanto se la riforma riguarderà le lavoratrici del settore privato

Pietro Piovani

lunedì 30 marzo 2009

Storie precarie alla radio


Vi segnalo il link all'intervista radiofonica fatta dai ragazzi di Zainet, nella trasmissione "Storie precarie" del 25 marzo.


lunedì 23 marzo 2009

La fine del lavoro e la scuola

E' ARRIVATA la fine del lavoro? Perlomeno del lavoro così come lo abbiamo conosciuto nel XX secolo? La domanda non è oziosa: la Fondazione Marco Biagi ha dedicato il suo convegno annuale all'occupazione giovanile e una delle sessioni è stata per l'appunto intitolata "The end of employment", che sta per "lavoro" ma anche, più correttamente "impiego". E, infatti, attraverso le relazioni di studiosi di diritto del lavoro provenienti da tutto il mondo, emerge proprio questo: viviamo in un momento in cui possiamo legittimamente chiederci se il lavoro stia cambiando pelle per sempre. La crisi globale accentua questa sensazione e mina ancora più velocemente le vecchie certezze.La lettura più ovvia di questa teoria è quella che deriva dall'avanzata dei lavori temporanei tra i più giovani. Questo avviene in tutto il mondo, ma la sensazione è più netta in Paesi che hanno sempre assegnato una particolare protezione al lavoro "per la vita". Il Giappone è un caso esemplare, ma l'Italia gli assomiglia moltissimo. Tra i giovani giapponesi, così come tra gli italiani, ci sono ormai percentuali inedite di lavoro temporaneo. E questo influisce sulla capacità di questi giovani di fare famiglia, e di fare progetti per il futuro. Al contrario dei giovani di altri Paesi (tradizionalmente più abituati all'incertezza) ai giovani giapponesi (così come ai giovani italiani) è stato insegnato che per sposarsi e fare dei figli bisogna aspettare di avere un lavoro definitivo. Oggi, molti di loro rischiano di aspettare troppo e di trovarsi fuori tempo massimo. Un altro problema delle generazioni più giovani in Occidente, ma anche in Oriente, sono le aspettative. Le loro aspettative sono molto più alte di quelle che furono dei loro genitori. E, purtroppo, nella società globale, l'incontro tra domanda e offerta del ”giusto” lavoro per la persona ”giusta”, si è fatto più difficile. Facile, più facile di quanto non fosse nel xx secolo, è trovare "un" lavoro, cioè una qualsiasi opportunità di lavoro. Ma "il" lavoro che piace, che si desidera, che ci soddisfa, che ci realizza, quello è un altro discorso. E molti giovani sembrano destinati a rimanere delusi.La risposta per molti è "educazione", scuola, skills, competenze. Giusto, ma la domanda è: quali competenze? Perché un'altra caratteristica di questo mercato è che è molto difficile prevedere le specializzazioni che saranno più ricercate e più spendibili sul mercato del lavoro in un certo lasso di tempo. Oggi constatiamo spesso che le aziende fanno spesso fatica a ricoprire certe posizioni lavorative. Ma da qui a 5 anni, chi è in grado di prevedere, e quindi di consigliare, a quali settori, a quali specializzazioni rivolgersi? Pochi. E chi lo fa rischia di essere smentito dalla realtà. Infine, con un brillante rovesciamento di impostazione, il professor Jacques Rojot di Parigi ha sorpreso tutti annunciando che, con il declino dell'industria tradizionale e l'avanzata dei servizi, sarà di fatto sempre più difficile distinguere i lavoratori per ciò che sanno fare. Ciò che sempre di più conta infatti è la capacità di comportarsi, di interagire, con il pubblico e sul lavoro. Behaviour, è stata la sua parola chiave. Sapersi ben comportare, essere appropriati, gentili, fa tutta la differenza in certi settori. Nessuno però lo insegna. La conclusione non è consolante: ogni Paese cerca di mettere in atto delle politiche che rendano più fluido il mercato del lavoro. Ma nessuno sa quale sia la politica giusta, nessuno può dire se ciò che funziona in un Paese possa essere trapiantato in un altro. Nel mondo convivono le situazioni estreme del lavoratore svedese, che per il 90% si aspetta di cambiare molte volte lavoro nel corso della vita, e quelle del lavoratore giapponese che, nella stessa percentuale, sogna invece la sicurezza totale, a vita, come ce l'avevano i suoi genitori. Tutti si affannano a parlare di formazione, di flessibilità, di flexicurity, eppure, come è stato ben sottolineato da una brillante docente americana, Susan Bisom-Rapp, i professori raramente si sentono responsabili del futuro dei loro studenti.Qui c'è una delle chiavi principali, il leit motiv di questa tre giorni di studio alla Fondazione Biagi, e uno dei punti fissi della ricerca di Marco Biagi e del suo allievo Michele Tiraboschi. Il momento più delicato, quello su cui più bisognerebbe concentrarsi per una politica del lavoro diretta ai giovani, è il momento della transizione scuola-lavoro. Le scuole, le università, quindi, devono essere responsabili. Così anche i professori. Un professore di statura internazionale, Roger Blanpain, belga, ha parlato di "ponti", di importanti misure ponte, che aiutino a superare le diverse fasi della vita lavorativa. E' in queste aree, in questi momenti di passaggio che le politiche pubbliche dovrebbero concentrarsi, soprattutto ora che c'è da costruire il ponte più importante, quello che ci permetterà, si spera, di arrivare indenni all'uscita della crisi.
(Pubblicato sul Messaggero del 23 marzo 2009)

lunedì 9 marzo 2009

Se il papà si lamenta del pupo

Finalmente qualcuno che ci ha provato, e che si lamenta. Non ne potevo più di quegli uomini che si vantano di aver fatto tutto quello che c'è da fare in casa quando sono nati i figli e di continuare sempre a dedicarsi a figli e attività casalinghe, dividendo a metà i compiti con la loro compagna. Oppure, più modestamente, dichiarano di "aiutare". Ma qui entriamo nel patetico.
No, Angelo Mellone, collaboratore del Messaggero e del Giornale, su quest'ultimo quotidiano fa il pianto greco, ma onesto, del padre moderno, costretto ad essere efficiente, flessibile e frizzante sul lavoro e, al tempo stesso, a fare il padre a tempo pieno."Sceglie cioè - parole sue - l'impossibile conciliazione tra paternità, famiglia e carriera". Impossibile in teoria ma, nei fatti, possibile per forza, a meno di non pensare a un'estinzione della specie (O alla solita moglie che decide di "dedicare" la sua vita ai figli, e al marito. Tranne poi accorgersi, giustamente, che non è in grado di capirne le esigenze, e tranne poi, più tardi, rinfacciare loro di aver sacrificato per loro la propria vita. Inutilmente).
Per non ispirarsi solo alla sua autobiografia, Mellone ci parla di libri, e in particolare cita il personaggio di un romanzo, "Fai la nanna, nannina" di Gianluca Berardi, Mondadori. Lo definisce "un personaggio vagamente wagneriano, guardato con commiserazione dai coetanei (...) il padre postcontemporaneo lotta quotidianamente per il trionfo della sua volontà". Soffre, ma non si arrende, e lavora come un disperato anche se reduce da nottate in bianco e ore e ore di gioco con i Lego.
E qui il sorriso già si allarga sul viso di qualunque mamma e/o donna , non solo postcontemporanea.
"Se non dormi non produci idee, se non produci idee non guadagni", è il punto fermo e il grido di dolore del nostro eroe. Ma và?! Attenzione, che qualcuno potrebbe perfino rinfacciargli, come spesso capita alle donne: ma no, che dici, se hai le idee e sei bravo, vedrai che ce la fai, nessuno ti discrimina. Già.
Secondo grido di dolore dell'aspirante padre perfetto: non basta mai, nessuno ti riconosce lo sforzo immane, in casa resta l'insoddisfazione. E qui credo che il sorriso sul viso delle donne si può tramutare in una bella risata liberatoria, visto che a loro questo è sempre capitato. ..."nonostante tutto quello che faccio". Ma la parte migliore non è la conclusione dell'ancora poco esperto Angelo Mellone: "Insomma se vuoi fare il padre post contemporaneo (...)che concilia tra paternità e lavoro creativo, professione & pannolini, preparati ad essere un misconosciuto in casa e un incompreso in trasferta". No, il punto non è questo.
Il veleno sta in una frasetta che l'ignaro pronuncia, una frase furba: "A lui, a noi (poveri maschi, ndr) non è concesso alcun congedo, non esitono i cinque mesi di licenza poppate". Ah! Qui c'è la ritorsione, il tentativo di dire alle donne che fanno, in fondo ciò che devono e che gli è riconosciuto dalla società con il congedo maternità. Ma le cose non stanno così. Intanto, il congedo di paternità lo possono prendere anche i padri. Se non lo fanno, è perché 1) non lo sanno, 2)non ci pensano, 3)si vergognano.
E poi vorrei rivelare al neo padre sofferente, che quei primi mesi sono proprio il meno. Anzi, proprio niente, rispetto a quello che lo aspetta, mano a mano che il figlio cresce. Dopo, anche dopo anni, viene il bello e non ci sono congedi che tengano.
Comunque lo dobbiamo tutte ringraziare: l'unico modo per fare in modo che qualcosa cambi è che tutti, ma proprio tutti, si accorgano di quanto costano quegli sforzi "wagneriani". E che tutti comincino a farli..

sabato 7 marzo 2009

Stupri, infamie e discriminazioni

Lo stupro è un’infamia, sempre, dice il presidente Napolitano, non importa la nazionalità. Grazie presidente. Però in fondo è una banalità. Ci mancherebbe altro che lo stupro non fosse un’infamia, sempre. Immaginate uno che dicesse l’omicidio è un’infamia, a prescindere dalla nazionalità. Ovvio. Magari uno lo può anche dire, all’interno di un discorso. Ma perché i mass media lo riprendono con enfasi? Un’enfasi molto maggiore di quella che viene tributata all’altra frase detta da Napolitano nella stessa circostanza, e ben sottolineata dal suo intero discorso, nonché dal contesto: le donne sono ancora discriminate nel lavoro, nella vita civile! Che notizia è una banalità a fronte di un gravissimo fatto, evidentemente ancora non universalmente riconosciuto, e al quale la politica potrebbe, se volesse, applicarsi? Mentre lo stupro è già aborrito e condannato dalle leggi, purtroppo la discriminazione avviene senza grave scandalo e senza allarme sociale, questo è il guaio.
Nel giorno dell’8 marzo, questa noia tremenda dell’8 marzo, io ci trovo una logica vecchia: le donne ridotte alla loro fisicità, come nello stupro, sono più ”interessanti” delle donne nella loro dimensione civile. Come il Vaticano che si chiede se per le donne ha fatto di più la lavatrice o la pillola. E si risponde: la lavatrice. Questo non mi stupisce, ma attenzione, la domanda è sbagliata, ma se proprio vogliamo rispondere, io direi la democrazia. Come per gli uomini, guarda un po'.
Forse, dopotutto, Napolitano ha ragione: non è ovvio per tutti che lo stupro sia sempre un’infamia inconcepibile.

mercoledì 4 marzo 2009

In pensione dopo, ma non "a gratis"

Le carte sono partite. Il governo italiano ha mandato a Bruxelles il suo piano per l’innalzamento graduale dell’età di pensionamento delle donne che lavorano nella pubblica amministrazione. Come era stato promesso, dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea che condannava l’Italia per disparità di trattamento.
Trattandosi solo delle dipendenti pubbliche, il risparmio che è stato stimato, sarà di appena 2,3 miliardi di euro in otto anni. Un piccolo passo per le casse dello Stato. Ma per le donne potrebbe essere, se ben capito e sfruttato, un grande balzo. La cosa più sbagliata, invece, che le donne possano fare, è di lasciar passare questo momento senza chiedere niente in cambio. Perché se l’equiparazione dell’età (per ora solo nel pubblico impiego) è sacrosanta, però va affiancata allo stesso tempo, con delle azioni forti per promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, come hanno ripetuto in Parlamento donne e uomini di destra e di sinistra, a partire da Emma Bonino, che propone da anni l’equiparazione dell’età pensionabile. Le donne devono pretendere pari opportunità di inserimento professionale e di carriera. Cose che oggi invece sono lontanissime.
Se, per esempio, i soldi risparmiati con le pensioni venissero utilizzati tutti per un grande piano nazionale di asili nido, l’impatto sull’occupazione femminile sarebbe fortissimo. E’ alto infatti il numero di donne costrette a lasciare il lavoro con la nascita del primo e soprattutto del secondo figlio, a causa delle difficoltà di cura del bambino. La diffusione degli asili nido, inoltre, libererebbe molte energie anche per quelle donne che, pur convinte di rimanere al lavoro nonostante i figli, fanno tutti i giorni le funambole per gestire l’ingestibile, tra tempi di lavoro e tempi di famiglia. E questo è solo un esempio. Se in futuro si deciderà di cominciare una discussione più ampia sull’età pensionabile delle donne (e degli uomini) rendendola magari sempre più flessibile e soggetta alle scelte individuali, si dovrà ancora di più sottolineare come i risparmi vadano utilizzati per le politiche attive di inserimento delle donne al lavoro e ai livelli più alti delle carriere, fino ad oggi, di fatto, a loro quasi precluse. Non è un’opinione, i numeri stanno lì a testimoniarlo: nei Cda delle aziende, nella dirigenza delle banche, ai vertici dello Stato in Italia le donne sono delle mosche bianche. La presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, una di queste mosche bianche, lo ha ricordato più volte a partire dal suo insediamento: un numero crescente di donne nell’economia significherebbe immediatamente una crescita del Pil, cosa di cui in tempi di crisi abbiamo particolarmente bisogno.
Alle donne che si preoccupano e si rammaricano che ora venga loro tolto ”anche” il privilegio di andare in pensione di vecchiaia anticipatamente, va detto: non vivete questa decisione come l’ennesima penalizzazione della vostra vita. Piuttosto, consideratela come la tappa di un cammino ancora lungo verso la piena dignità e il riconoscimento (prima della pensione, non dopo) delle vostre potenzialità. Per voi, le vostre figlie e i vostri figli.
(Pubblicato sul Messaggero il 4/3/2009)

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