martedì 9 gennaio 2018

IL LAVORO CHE CI ILLUDE E CI FA SOGNARE

L'oroscopo dice che il 2018 sarà un anno d'oro per chi cerca lavoro.
Peccato non credere agli oroscopi...!
Eppure l'anno comincia veramente con dati positivi straordinari da parte dell'Istat: il numero delle persone occupate in Italia è il più alto mai raggiunto in 40 anni. Sono  23.183.000 persone. Un po' pochine, a dire il vero, per un paese di 60 milioni di persone, perché questo vuol dire che tutti gli altri vengono mantenuti da quei 23 milioni 183 mila. Però è vero che è record  ed è la prima vera buona notizia dopo molti anni. Qoesto dice varie cose: primo,  è in atto una vera ripresa economica che ha portato un po' più di persone al lavoro; secondo, il mercato del lavoro (e quindi la struttura dell'economia) in Italia fa schifo, e non da ora. 
Gli aspetti positivi di questi dati sono vari. Non c'è solo il numero record di occupati, c'è anche il dato della disoccupazione che cala. E scende il numero dei giovani disoccupati. Poi salgono gli occupati "agé", ma questo oprattutto a causa delle riforme pensionistiche.
Soprattutto, c'è il dato delle donne. Per la prima volta dopo 10 anni c'è una crescita significativa della percentuale di donne che lavora: siamo oggi poco oltre il  49%. Scusate l'entusiasmo, ma è un risultato bomba! (Bè, c'è chi si accontenta con poco....). Per anni siamo stati fermi tra il 46 e il 47%, e questa è la prima volta che ci avviciniamo significativamente al momento in cui potremo finalmente dire che in Italia lavora una donna su due (tra quelle in età di lavoro).
E' un risultato lungamente atteso, perché le donne al lavoro sono un fattore importante di crescita culturale e sociale, per chi ancora crede a queste cose, e per chi ancora crede che un essere umano debba essere autonomo, indipendente e padrone di se stesso. Quindi non mantenuto da qualcun altro.


Ma una donna in più che lavora significa anche altre cose. Significa una famiglia più forte, cioè una famiglia con più di uno stipendio, quindi più ricca e più attrezzata ad affrontare i casi della vita. Significa una società con più figli, perché statisticamente negli ultimi decenni si è visto che nei paesi avanzati le famiglie con più figli sono quelle nelle quali le donne lavorano. E l'Italia, in costante invecchiamento e declino demografico, ha tanto bisogno di fare più figli! 
Ma una donna che lavora significa anche nuovi posti di lavoro! Sembra strano, ma chi lavora crea nuovi posti di lavoro (perché ha più soldi da spendere e quindi incentiva le imprese a assumere). Ma nel caso delle donne questo è doppiamente vero, e chiunque ci può arrivare anche solo con un po' di intuito: Una donna che si mette a lavorare significa che qualcun altro dovrà cominciare a fare al posto suo tutti quei lavori che lei prima faceva gratis.  Una parte li faranno finalmente i maschi - muovendo le loro sempre più pesanti membra dalla posizione di riposo - ma una parte li faranno collaboratori domestici, lavanderie e stirerie, baby sitter, professori di ripetizioni private, infermieri e badanti. E' stato calcolato che ogni 10 donne che entrano nel mercato del lavoro, si creano 7 posti di lavoro in più. Non male, no? Quindi questo è il filone su cui chi governerà nella prossima legislatura ha il massimo di responsabilità. Non bisognerebbe lasciar passare questa onda positiva, ancora modesta.
Anche perché invece di aspetti negativi ce ne sono, e tanti. Il primo è che cresce la quota di lavoro a termine. Di per sé questo non sarebbe un male, perché indica una quota di flessibilità che aiuta il mercato a funzionare. Però se i lavori temporanei non si aggiungono, ma sostituiscono quelli a tempo indeterminato, allora vuol dire che non sono lavori di buona qualità, come un ricovero temporaneo, una specie di tenda, invece che una vera casa. L'altro aspetto è che non sono cresciuti i lavori qualificati. Questo è forse l'aspetto peggiore. Un paese grande e ricco deve investire su lavori qualificati non solo per i giovani che escono dalle università e cercano questo tipo di lavoro, ma perché sono i lavori qualificati che innalzano il livello sociale e economico, garantendo innovazione benessere e crescita. Insomma questo è l'aspetto di lungo termine su cui chi governerà l'Italia nei prossimi 10 anni deve lavorare duramente, altrimenti l'Italia rimarrà sempre un paese parzialmente debole e arretrato.

Anche perché il confronto con gli altri paesi europei è impietoso. La media delle donne che lavorano in Europa è oltre il 60%, quindi ben lontano da noi, e molto più vicino alla percentuale di uomini.  Inoltre negli altri paesi Ocse le professioni ad alta qualificazione  sono cresciute del 7,6% in media, contro l'1,93% di quelle a bassa qualificazione. In Italia invece i due valori sono simili. I lavori a bassa qualificazione ovviamente sono lavori più deboli, peggio pagati, più esposti alle intemperie del mercato e delle innovazioni tecnologiche. E non fanno crescere i giovani laureati, che troppo spesso vanno a cercarli all'estero. 
Insomma, il quadro è buono, ma se non si approfitta per lavorare sulla prospettiva futura, rischia di essere solo un fuoco di paglia.  Ci sarebbe da dire: tutta la responsabilità è sul governo che verrà. Ma la delusione è in agguato.

lunedì 14 novembre 2011

APPUNTI PER IL PROF MONTI: IL LAVORO DELLE DONNE


In Italia c’è troppa poca gente che lavora. Questo è uno dei più gravi problemi della nostra economia. E’ un dato che ci mette in fondo a tutte le classifiche dei paesi occidentali e che denuncia la nostra debolezza quando poi si tratta di crescita, di solidità, di capacità di fare fronte alle difficoltà, semplicemente di produrre reddito.
Il nostro tasso di occupazione è sotto il 60%: per la precisone, secondo i dati Eurostat del 2010, gli ultimi disponibili, siamo al 56,9%. La media Europea, a 16 o a 27 che sia, è intorno al 65%, e tale è il dato in Francia, mentre in Gran Bretagna è vicino al 70%, così come anche in Germania. Perfino la Spagna ci supera, e perfino la Grecia. Ma se in Italia lavora così poca gente va capito il perché. E la spiegazione, chiara e semplice, sta tutta in una categoria della popolazione: le donne.

Se guardiamo i tassi di occupazione dei soli uomini, infatti, siamo più o meno in linea con gli altri paesi, anche sempre un po’ più in basso. Perfino in Italia gli uomini trovano normale lavorare. E il loro tasso di occupazione nel 2010 è al 67,7%, in forte calo rispetto agli anni precedenti quando era oltre il 70%. La media europea è al 70%. Insomma anche gli uomini in Italia come sappiamo non stanno bene, ma se la cavano.
Le donne invece abbassano drasticamente la media. Infatti abbiamo il tasso più basso di occupazione femminile del mondo occidentale, inchiodato al 46%, dopo che per un paio di anni era arrivato al 47, ma ben lontano dalla media europea del 58-59% e dal tasso di tutti gli altri paesi con cui ci confrontiamo di solito. In Francia il tasso di occupazione femminile è al 59,7%. E ci superano ancora una volta sia la Spagna che la Grecia (sic). Ecco il grosso problema. Chiunque vorrà far crescere l’economia italiana, modernizzarla e dare sicurezza alle famiglie in una prospettiva di lungo termine, dovrà affrontare questo problema. (Anche perché se in una famiglia si perde un lavoro e ce n'è un altro, si soffre sì mna non si finisce sotto i ponti!)

Questo cambiamento naturalmente potrà avvenire in modo indiretto: nel momento in cui la società italiana sarà spinta a crescere e a innovare, anche la partecipazione delle donne al mercato e il loro contributo alla società italiana crescerà e si farà più qualificato. Sarà un processo auspicabile, naturale e inevitabile, ma lento.
Oppure il problema può essere affrontato in modo diretto, cercando di scatenare una reazione positiva, più ampia, concentrata, da cui poi si potranno diramare una serie di conseguenze positive. Sarà tutta l’economia a beneficiarne, ma ci saranno ricadute notevoli anche sulla società e la cultura italiane, se ne discuterà a tavola, a letto, nelle famiglie, in trattoria, negli uffici, in tv.

Il professor Mario Monti in più di un’occasione, soprattutto da quando è iniziata la crisi mondiale che sta affossando l’economia occidentale, ha detto che questa crisi poteva e doveva essere l’occasione per includere gli outsider, riequilibrare la partecipazione degli esclusi al mercato, proprio per rimettere in piedi l'economia e la crescita. Quindi forse affronterà di petto il problema delle donne. Ma perché non concentrare il dibattito pubbblico su questo tema che potrebbe investire le vite personali di tanta gente, e forse cambiarle in meglio?

Le donne in Italia devono fare lavori retribuiti. Tutte, sempre di più. Questo dovrebbe essere l’obiettivo preciso. Ma cosa significa in una famiglia quando ci sono due stipendi invece di uno? Quale enorme differenza ci può essere anche in termini di rapporti personali tra i componenti di quella famiglia? Quali cambiamenti possono avvenire nel mercato quando la domanda cresce per effetto di tante persone in più che lavorano e domandano beni e servizi?
Discutiamone, se vogliamo che qualcosa succeda. Discutiamone pubblicamente, affrontiamo anche coloro che non sono d’accordo (e ci saranno).
Naturalmente si dirà che questo lavoro, questi posti di lavoro, non ci sono, non sono disponibili. Non basta volerli. Si dirà che tutte queste donne, se volessero lavorare diventerebbero automaticamente delle disoccupate, cosa che oggi ”tecnicamente” non sono. Ma tutti gli economisti sanno che questo è solo parzialmente vero e che l’ingresso sul mercato di tante donne che cercano lavoro porterebbe a un circolo virtuoso nel quale aumenterebbero anche i posti di lavoro. E aumenterebbe il benessere delle famiglie.
Gli economisti Alesina e Giavazzi oggi sul Corriere della Sera propongono una misura semplice, che potrebbe andare proprio in questa direzione: incentivare in tutti i modi il lavoro delle donne. Loro propongono imposte ridotte sul lavoro femminile. Una manovra apparentemente semplice, ma che avrebbe conseguenze enormi. Perché non si scatena un dibattito pubblico su questo, nel momento in cui un governo tecnico, (privo si spera in ampia misura di prevenzioni ideologiche) si deve mettere al lavoro? Credo che sarebbe importante anche per il futuro capo del governo Monti, affrontare questo problema e sentirew cosa ne pensa la gente. I mass media per ora sono sordi. Il tema è di quelli che fa solo "colore". Accettiamo ancora questo atteggiamento?

lunedì 24 ottobre 2011

DONNE IMPRESA



Una due giorni a Roma, con decine di imprenditrici venute a incontrarsi e a parlare dei propri problemi. Io l'ho raccontate in Imprese da favola sono stata orgogliosa di essere lì con loro, di incontrarle, finalmente di fronte alle loro storie . Alcune sono state anche riprese in un video. E potete vedere tutti i momenti salienti della mia intervista nonché delle due giornate, nel Tg della Confartigianato
Qui accanto la presidente di Donne impresa, Edgarda Fiorini.

mercoledì 19 ottobre 2011

STORIA DELLA DONNA CHE HA INVENTATO PULCINELLA



Carmela era una giovane artista disoccupata, ora è una brillante imprenditrice napoletana. La sua storia "La donna che ha inventato Pulcinella", l'ho raccontata in Imprese da favola ed è in parte uscita oggi anche sul Mattino di Napoli. Di lei e delle altre parleremo tra l'altro domani, alla convention di Donne Impresa della Confartigianato.
Qui c'è tutto il capitolo:
La donna che ha inventato Pulcinella

Si può inventare Pulcinella a Napoli? Carmela ci è
riuscita. Da sola, senza attaccarsi a tradizioni familiari,
senza ereditare segreti di bottega. Solo con il suo
talento, la sua passione per l’arte e una grande forza
di volontà. Da ragazza sognava di fare la pittrice,
Carmela. Si iscrive all’accademia di Belle Arti. Fa
delle mostre. Ma così non si campa: «Avevo 24 anni,
ho capito che non potevo vivere di arte e pittura.
Non c’era un mercato».

Visto che con le mani ci sa fare e all’accademia
aveva fatto esami sul teatro e sui costumi teatrali,
si avvicina al mondo della commedia dell’arte e
comincia a fabbricare oggetti ispirati alle maschere.
Pulcinella è il suo primo soggetto e diventerà il suo
cavallo di battaglia. Per farlo le bastano della terracotta
e un forno.

Poi decide di andare a Venezia a cercare un mercato
per le sue creazioni. Lì qualcosa realizza, ma
brancola ancora nel buio. «Non avevo idea di come
si calcola un prezzo, non sapevo ancora come
muovermi per trovare i clienti». Quando si prende
abbastanza sul serio entra al Macef di Milano, il
Salone internazionale della casa, dove ci sono anche
acquirenti di altri paesi. «Lì ho realizzato davvero
che un mercato poteva esserci, e attraverso il Macef
ho cominciato a vendere ai negozianti».

A cinque anni dalla fine dell’accademia, Carmela
costituisce la sua azienda, si mette in cerca di
un laboratorio e trova un locale che all’inizio riesce
ad avere in prestito, poi prende in affitto. «Finalmente
ho cominciato a guadagnare», dice, dopo che
per cinque lunghi anni era stata solo una giovane
pittrice disoccupata. Però non aveva mai mollato.
Subito dopo, nel 1996-1997, riesce ad accedere ai
fondi per l’imprenditoria femminile, grazie anche alla
Confartigianato. Cresce, assume un dipendente, gira
per le fiere e comincia a esportare. Gli acquirenti si
materializzano da Taiwan, da Dubai, dalla Russia.
«Quando mi arrivò il primo assegno da Taiwan non
ci volevo credere, mi sembrava impossibile».

Ma a un certo punto, dopo che la Cina, nel 2001,
è entrata nel Wto, subisce l’impatto dei mercati internazionali
e delle produzioni asiatiche a basso prezzo.
Il Macef e altre fiere cominciano a dare spazio ai
prodotti cinesi. Lei però non si è mai ridimensionata:
lavora di più sul mercato italiano, allarga la
gamma dei prodotti, crea una rete per le sue opere
che vende in negozi monomarca, qualcosa di simile
al franchising.

Nel 2003 vince la causa di Pulcinella. La celebre
maschera napoletana è il pezzo forte della sua produzione.
Se Pulcinella è universale, quello plasmato da
Carmela ha una propria riconoscibile personalità e si
fa apprezzare dagli acquirenti. Ma attrae gli imitatori,
che cominciano a copiarlo e a venderlo. Questa è
concorrenza sleale, si infuria Carmela, che si rivolge
al tribunale di Santa Maria Capua Vetere. E il tribunale
le dà ragione: i Pulcinella della Giostra delle
Metamorfosi – il suo marchio – sono opere originali
e, come tali, meritano tutela. Gli imitatori devono
inventarsi qualcos’altro.

«Adesso ho 5 operai qualificati e 9 apprendisti e
il mio problema è che non trovo manodopera, perciò
non riesco a soddisfare le richieste dei clienti».
Per lei, come per altri artigiani, il reclutamento del
personale spesso è il principale ostacolo alla crescita
dell’attività. Per formare un apprendista servono 54
mesi, 4 anni e mezzo. Sono pochissimi i giovani che
hanno voglia di imbarcarsi in un’avventura del genere
dove, all’inizio, si guadagna poco, non più di 500
euro al mese. Per chi ce la fa, però, le soddisfazioni
ci sono, tanto è vero che 3 dei suoi operai qualificati
si sono poi voluti mettere in proprio e sono diventati
a loro volta imprenditori, anche se il legame con
Carmela e il suo laboratorio non si interrompe: lei
resta la signora dei loro Pulcinella, delle loro terrecotte.
E anche per lei è una grande soddisfazione
vedere i suoi «ragazzi», che avevano cominciato con
lei a 16 anni, ora trentenni, diventare abili artigiani
e imprenditori autonomi.

Ora la crisi l’ha toccata soprattutto perché i suoi
acquirenti hanno cominciato ad allungare i tempi dei
pagamenti. Ma per lei la difficoltà maggiore è soddisfare
la grande richiesta: «Non abbiamo concorrenti,
perché la nostra scelta è la qualità e l’unicità», dice
passando dall’io al noi, da capitana d’azienda. «Il
mercato del bello, anche quando è costoso, c’è sempre.
Tutti noi abbiamo bisogno del bello. Nei miei
pezzi io riporto un po’ il barocco siciliano, il Capodimonte,
le ceramiche vietresi, i bassorilievi lignei
umbri. All’inizio è stata una scelta istintiva. Adesso
invece c’è uno studio, seguo anche le tendenze della
moda e dell’arredamento. Non è più come una volta,
oggi non puoi non essere informato».

La grande forza di Carmela è anche la forza della
sua azienda. «Non mi posso mai assentare. Basta un
giorno, a volte, per perdere i riferimenti». Perciò

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passa le giornate con il camice, in fabbrica, gira tra
i banchi da lavoro. «Controllo sempre la qualità,
motivo i ragazzi». Il tempo però non le basta, le difficoltà
sono a ogni angolo: «Un anno fa ho cambiato
sede e ho avuto l’impressione che tutto improvvisamente
andasse a rotoli, che avevo fatto il passo più
lungo della gamba». Ora si sta riprendendo. Ma se
l’azienda è robusta e la famiglia la sostiene (il suo
compagno è il suo primo collaboratore), non tutto è
sempre possibile: «Un figlio è il massimo che mi sono
potuta concedere, anche se avrei voluto una famiglia
più numerosa». E qui, tra tanta determinazione, la
voce di Carmela si abbassa di tono e diventa un
sussurro. Ma è solo un attimo di debolezza.

Carmela Vitullo -Napoli -giostrametamorfosi@iol.it

martedì 18 ottobre 2011

IMPRESE DA FAVOLA, LA NUOVA AVVENTURA


Che donne!
L'Italia, lo sappiamo, fa sempre brutta figura nelle classifiche internazionali: dal verde nelle città al numero di laureati, l'Italia viene sempre definita "maglia nera", no? In questo caso invece siamo primi. Abbiamo il record di donne imprenditrici! Da non credere. Ma è vero: sono una percentuale molto alta delle donne che lavorano (poche, come sappiamo) e sono il maggior numero in assoluto in confronto agli altri paesi europei.  Il fenomeno non poteva lasciarmi indifferente e così ho cominciato a occuparmi di loro  e a parlare con tante della loro esperienza personale.
Ecco, così è nato "Imprese da favola",un libro sulle donne italiane che si inventano il lavoro. Veri "geni della lampada"!
Per me è stato anche terapeutico: quando ero un po' giù parlavo con una di loro e  mi sentivo subito entusiasta e piena di energia, e convinta che avrei potuto imitarle. Certo, non è da tutti mettersi in proprio e realizzare la propria impresa, però in loro c'è il vero spirito italiano, quello migliore, di chi non si arrende e cerca di farcela con le proprie forze, senza dover dire grazie a nessuno. Lo spirito di chi vuole realizzare un sogno, di chi non si fa scoraggiare dallo scetticismo di chi ha intorno.  Insomma, anche io sogno di ispirarmi a queste geniette e, chissà, un giorno realizzare il mio sogno segreto. Ci sto già lavorando.

A proposito, il libro esce domani.

giovedì 14 aprile 2011

Appuntamento a Torino il 15 APRILE 2011 alla Biennale Democrazia


15 APRILE 2011 A TORINO
TEATRO GOBETTI ORE 21,30
v. Gioacchino Rossini 8




Nelle giornate di Biennale Democrazia 2011 “Tutti. Molti. Pochi”
LA SFIDA DEGLI OUTSIDER
NewTO intervista
Michel Martone, docente di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo
Angela Padrone, Vice caporedattore centrale del quotidiano «Il Messaggero», autrice de La sfida degli outsider (Marsilio, 2009)
...e Irene Tinagli, docente all'Università Carlos III di Madrid, autrice di Talento da svendere (Einaudi, 2008)

Per NewTO intervengono: Davide Fuschi, Francesca Gambetta e Paolo Verri

Ingresso libero - Info 011 0768038 info@newto.eu

Chi sono gli outsider nell’Italia dei primi decenni dell 2000?
I giovani, che hanno rappresentato in passato un’icona vincente e ora sono in crisi d’identità, stanchi, sfiduciati? O le donne, che nel XX secolo si sono battute per la parità di diritti e hanno scoperto che quando si sale sul palco è dura strappare i ruoli principali? O i migranti, che pur presenti in grande numero nel nostro Paese sono poco rappresentati e solo parzialmente integrati.
In ogni caso energie potenzialmente nuove che il nostro sistema socio-produttivo tende a penalizzare anziché valorizzare, ritrovandosi di giorno in giorno più stanco e afflitto.

Ma lo sport ci insegna che l’outsider è quell’atleta che riesce ad affermarsi pur avendo inizialmente scarse probabilità di successo e che, escluso dal numero dei favoriti di una gara, ne risulta a sorpresa il vincitore o uno dei maggiori protagonisti...

Con Michel Martone, Angela Padrone e Irene Tinagli, NewTO lancia un richiamo agli outsider italiani, che possono costituire il vero motore della ripresa nel nostro Paese. Per loro, è giunto il momento di conquistare un ruolo nell’Italia che cambia.

domenica 13 febbraio 2011

Le donne in piazza per dire "Basta!"


Un milione in piazza, sì, ma non è la prima volta. La cosa nuova di questa domenica 13 febbraio è che da almeno 30 anni non si vedeva una piazza trascinata dalle donne, nella quale le donne sono state il soggetto dominante, le portatrici del messaggio più forte.
E’ presto per dire se questo cambierà qualcosa. Tante volte in passato, nei decenni passati, le donne hanno creduto di essere una forza di cambiamento. Invece l’Italia degli ultimi 15 anni è un paese tristemente ”scollacciato” ma nel quale le donne non hanno nessuna funzione alta. Tirano avanti la carretta, questo sì. Ma, diciamolo, non basta. Come non basta agli uomini, che infatti non fanno altro che lottare per il potere e per imporre la loro visione del mondo.
Il problema non è tanto la dignità delle donne, come si dice. La mia dignità non è intaccata dalle donnine di Berlusconi. Il problema è l’Italia. Un paese nel quale le donne negli ultimi decenni non hanno fatto la politica. Non hanno deciso quali erano i temi importanti, non sono riuscite ad avere potere e non sono riuscite a parlare di potere. In una parola, non sono state protagoniste.
Per chi, come me, ha vissuto stagioni più esaltanti e poi si era illusa che il tema delle donne fosse ormai un problema ”risolto”, è stata una sconfitta intellettuale enorme. Abbiamo dovuto prendere atto che viviamo in un paese ”non civilizzato” da questo punto di vista. E ”questo punto di vista” se ne tira dietro tanti altri: il lavoro, i giovani, la libertà del mercato, la protezione dei più deboli. Perfino la vitalità (la mancanza di vitalità) del tessuto produttivo, credo che sia dovuto allo scarso peso delle donne. Berlusconi rappresenta tutto questo. E le donne che hanno trascinato se stesse e gli uomini in piazza oggi rappresentano una speranza di cambiamento. Almeno una speranza, per un giorno. Ma non basta.

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