LA CRISI E LE DONNE
(pubblicato sul Messaggero di mercoledì 10/12/2008)
L’ETÀ della pensione per le donne, per ora, non si tocca. La condanna della Corte di Giustizia Europea, che bacchetta l’Italia per la diversa età minima alla quale donne e uomini possono prendere la pensione di vecchiaia nel settore pubblico, non basta a spingere il governo italiano a modificare le regole. Però ha spinto Destra e Sinistra a trovarsi unite di fronte alla malattia che affligge il lavoro delle donne in Italia: un livello già bassissimo (intorno al 47%) rispetto a tutti gli altri Paesi europei (media al 60%) in anni di crescita e che adesso, con la Crisi, rischia di scendere ancora di più. Toccato il fondo, a quanto pare, alle donne italiane non resta che ”scavare”.
«Abbiamo dimenticato l’emancipazione economica delle donne», ha provocato Emma Bonino, che sul tema ”In pensione quando, al lavoro come?” ha messo insieme nella stessa sala del Senato non solo il ministro Maurizio Sacconi e il suo opponente ”ombra” Pietro Ichino, ma anche l’economista Fiorella Kostoris e il giuslavorista Michel Martone, Valeria Fedeli della Cgil e Renata Polverini dell’Ugl, Luca Paolazzi della Confindustria e Milena Carone dell’Udi, e poi Anna Bonfrisco, Benedetto Della Vedova, Giuliano Cazzola del Pdl, e Francesca Marinaro e Donatella Poretti del Pd. Ospite d’onore perfino la centenaria Rita Levi Montalcini. Tutti, sostanzialmente, d’accordo che la situazione del lavoro delle donne in Italia è insostenibile e che l’arrivo della Crisi avrà due effetti: 1)la situazione delle donne peggiorerà; 2) si aprirà un’opportunità per cambiare qualcosa. Si sente il bisogno di una ”spallata” ha detto Ichino, difendendo la proposta di ridurre le tasse sul lavoro femminile. E anche chi non era d’accordo con lui ha apprezzato l’immagine della spallata.
In Italia ci sono 4 milioni di donne che sono fuori dal mercato del lavoro e che per questo non hanno gli stessi diritti degli uomini. Ci sono milioni di altre donne che lavorano e non ricevono nessun supporto dallo Stato, perché mancano gli asili nido, perché gli orari di lavoro delle aziende non sono flessibili e mal si adattano alla gestione della vita familiare, perché le donne faticano a fare carriera, guadagnano mediamente meno degli uomini, e infine, quando vanno in pensione, rischiano di ritrovarsi sull’orlo della povertà.
Se con un colpo di bacchetta magica, le donne italiane lavorassero nella stessa misura delle altre europee, il Pil dell’Italia farebbe un balzo del 15%, ha detto Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi di Confindustria. Anche Emma Marcegaglia lo disse nel suo primo discorso da presidente. Anche alle imprese il lavoro delle donne serve. Anzi, servirebbe se ci credessero con convinzione.
Di più, ha sottolineato Milena Carone dell’Udi, la si smetta di parlare di ”aiuti alle donne”. Perché si continua a dire che gli asili nido sono ”per le donne”, quando in realtà sono per i bambini e per un’intera società che deve investire su di loro? Valeria Fedeli ha rincarato: «Dico no alla ”conciliazione”, (cioè a quelle politiche che dovrebbero permettere alle donne di lavorare e allo stesso tempo farsi carico degli impegni familiari), ma dico sì alla ”condivisione”». Che tradotto vuol dire: donne e uomini dovrebbero imparare a condividere carichi di lavoro e carichi familiari. Alla pari.
Ecco, tutto questo è venuto a galla a partire da quella sentenza sull’età pensionabile delle donne. Tema che Emma Bonino e i radicali utilizzano da tempo come ”leva” per affrontare un problema che è una vera emergenza nazionale e che, invece, spesso viene trattato come ” colore”.
Il ministro Sacconi non si è sottratto. Di mettere mano alle pensioni però non vuole parlare. Fa i calcoli e afferma che nel pubblico impiego le donne già tendono a lavorare più del minimo necessario e che, in fondo, l’equiparazione per legge dell’età tra donne e uomini, sarebbe una piccola cosa anche in termini di risparmio per il bilancio dello Stato: non più di 250 milioni di euro.
Sacconi però sa che in Italia il numero dei lavoratori è troppo basso e che questo, oltre a essere ingiusto nei confronti delle categorie penalizzate (le donne in primis), danneggia il nostro sistema economico. «Dobbiamo puntare alla flessibilità dell’orario di lavoro - ha sottolineato - e sull’offerta di servizi per le madri». Cioè asili nido, ma non solo: anche tagesmutter dice lui, cioè baby sitter di condominio o di quartiere, sulle orme dell’esperienza tedesca.
Ma basta? Sul Corriere della Sera di ieri Maurizio Ferrera ha messo in guardia dal rischio che la crisi penalizzi ancora di più gli outsider (donne e giovani), mentre partiti e sindacati continuano a pensare a chi già è protetto. Meno tasse alle donne, più ammortizzatori sociali per i lavoratori che rischiano il posto e non hanno cassa integrazione (e sono soprattutto donne), asili nido e servizi all’infanzia, congedi di paternità obbligatori. Tutto ciò servirebbe a fare argine contro un rischio sul mercato del lavoro delle donne. Le “tagesmutter” non bastano di certo.
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